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Il mercato degli idrocarburi: una sommatoria di monopoli inattaccabili Stampa E-mail
a cura di Drilling

Vorremmo partire da alcune considerazioni sulla struttura dei prezzi petroliferi, che troppo impropriamente viene sintetizzata come prezzo del petrolio, per analizzare un mercato dove convivono realtà fortemente differenziate ognuna delle quali si muove in un contesto di forte monopolio. Mediamente nel 2005 il prezzo del petrolio si è mosso intorno ai 60 dollari al barile, ma i prodotti ottenuti da un barile, senza considerare le tasse nazionali, sono stati venduti nell’insieme più o meno a 70 dollari a barile, con punte che sono andate ben oltre questi valori.

La differenza fra prezzi dei prodotti finiti (benzina, gasolio, eccetera) e prezzo del petrolio (materia prima) costituisce il cosiddetto margine di raffinazione. Basta dare un’occhiata ai bilanci delle compagnie di raffinazione nel mondo, per vedere il livello dei profitti realizzati nel corso del 2005. Parliamo ovviamente di profitti ottenuti grazie alla evoluzione del “libero” mercato e quindi di profitti legittimi, ma quando un fenomeno del genere diventa universale, su scala mondiale e più o meno dello stesso ordine di grandezza dovunque, viene da chiedersi che cosa stia succedendo, il perché, e cosa ci aspetta nel prossimo futuro. Il settore della raffinazione fino a dieci anni fa era la Cenerentola dell’industria petrolifera, a causa dell’eccesso di capacità esistente soprattutto nel Bacino Atlantico e nel Golfo Persico.
La forte diversificazione dei consumi energetici avvenuta negli anni ‘80, con la massiccia metanizzazione delle città (a scapito del gasolio da riscaldamento) e delle centrali elettriche (a scapito dell’olio com-bustibile), aveva reso eccedente una parte significativa della capacità di raffinazione. L’arrivo, inoltre, di prodotti finiti direttamente dalle raffinerie dei Paesi produttori del Golfo aveva prodotto l’abbattimento dei margini di raffinazione. Tutte le raffinerie con cicli tecnologici più semplici sono divenute rapidamente obsolete e antieconomiche e sono state quindi chiuse. La presenza elevata di una compagnia petrolifera nel settore della raffinazione costituiva un indicatore negativo per i mercati finanziari e quindi determinava un rating penalizzante.


A partire dalla seconda metà degli anni ’80 è partita la corsa delle compagnie petrolifere a liberarsi della capacità di raffinazione eccedente, riducendo la propria presenza al limite incomprimibile per garantire il rifornimento delle proprie reti di distribuzione di prodotti petroliferi. Il processo è stato guidato esclusivamente da una logica finanziaria, dalla quale è stata assente ogni logica industriale. La raffinazione ha finito con l’essere considerata un segmento marginale del ciclo del petrolio, da delegare in gran parte ad operatori secondari.
Le grandi compagnie si sono concentrate nel business della ricerca e produzione degli idrocarburi. Basta dare un’occhiata ai riassetti proprietari del settore negli ultimi anni per avere una conferma dei processi avvenuti. Anche in Italia, nel nostro piccolo, si è avuto un processo simile. Agli inizi del 2000 si inizia a rendersi conto che si era andati al di là degli obiettivi che si voleva raggiungere: si era prodotta a livello mondiale una crisi di disponibilità della capacità di raffinazione, che ha reso di fatto le industrie di raffinazione veri e propri monopolisti del mercato dei prodotti petroliferi. Per quanto i Paesi produttori - Opec e non Opec - aumentino il livello di produzione del petrolio greggio, se i raffinatori non lo trasformano nei prodotti finiti richiesti dal mercato, non si può determinare alcun abbassamento del livello dei prezzi. L’insufficiente capacità di raffinazione ha quindi creato una chiara situazione di monopolio, non regolata da leggi o norme di alcun genere e non controllata da alcuna entità nazionale o sovranazionale. Gli operatori del settore si muovono infatti all’unisono, sulla base delle leggi di mercato, con il solo intento di massimizzare i profitti. Ad esempio, programmano le fermate degli impianti nel momento di discesa stagionale dei consumi, quando ci si aspetta che i prezzi possano scendere, con il risultato di determinare una riduzione dell’offerta e quindi di tenuta dei prezzi. Solo negli Usa esiste una forma di regolamentazione e di controllo di queste attività, che vengono in qualche modo assimilate a quelle del trasporto del gas e dei prodotti petroliferi.

Esistono norme che richiedono da parte delle compagnie la netta distinzione fra la gestione delle infrastrutture possedute (stoccaggi, oleodotti, mezzi di trasporto, eccetera) e le attività commerciali. Fino a pretendere la diversa collocazione fisica dei gruppi aziendali che si occupano di queste attività. Una qualunque forma di azione sulla logistica (aumento o diminuzione degli stoccaggi, ritardo nella spedizione di un carico, eccetera) coordinata con i settori commerciali della stessa azienda costituisce una violazione delle regole del libero mercato e dà luogo a sanzioni severe. Viceversa in Italia (e in Europa) si parla tanto delle reti di trasporto del gas naturale, ma è completamente assente dal dibattito (ma anche dalla consapevolezza) il problema del controllo e della gestione delle infrastrutture di trasformazione e di trasporto e del loro impatto sui prezzi dei prodotti petroliferi. Tutto ciò sta determinando un nuovo panorama energetico su cui occorre riflettere per coglierne la nuova dimensione. Non siamo più di fronte ad un mercato degli idrocarburi, in cui i prezzi di benzina, gasolio, olio combustibile e gas naturale scaturiscono dal cosiddetto prezzo del petrolio, deciso da entità politico-economiche (Opec?) “estranee”, ma sono il risultato di specifiche politiche industriali adottate per i singoli settori di utilizzo di ogni singola fonte energetica. Ovvero, la politica dei trasporti privati e pubblici, la politica del riscaldamento domestico, la politica di produzione dell’energia elettrica, e così via. Il prezzo del petrolio è oggi un indicatore sintetico che fornisce un’idea della sommatoria delle tensioni esistenti nel complesso di questi settori. Siamo ben lontani dallo scenario in cui l’Opec era il monopolio del mercato petrolifero. Ad esso si sono sostituiti un insieme di nuovi monopoli, meno visibili ma più efficaci.

Abbiamo già altre volte rilevato come, ad esempio, gran parte delle tensioni sul prezzo del petrolio siano derivate, a partire dal 2000, dalla mancanza strutturale di benzine ecologiche sul mercato americano e dall’incapacità del sistema di raffinazione di quel Paese a produrle. A questo elemento di crisi si è aggiunto dal gennaio 2005 la mancanza di gasolio “pulito” nei Paesi Ue. Il successivo svilupparsi di queste situazioni di crisi sta modificando radicalmente il modello di interpretazione del mercato energetico e richiede strumenti nuovi di analisi e di controllo, per evitare che le varie Authority divengano un organismo di consolazione morale per le associazioni dei consumatori. In questa prospettiva è interessante osservare la struttura dei consumi petroliferi nei Paesi industrializzati, in particolare negli Usa e in Europa. Si può chiaramente osservare che quasi il 75% dei prodotti petroliferi consumati nel mercato americano sono destinati al settore dei trasporti. In particolare:

  • il consumo delle benzine, prevalentemente per i trasporti privati di autovetture, rappresenta circa il 54%;
  • il consumo del jet fuel per l’aviazione rappresenta circa il 12%;
  • il consumo del gasolio per i trasporti pesanti e fluviali rappresenta oltre il 15%. Il consumo di gasolio per altri usi èintorno al 5%;
  • solo il 13/15% è destinato ad usi industriali non direttamente collegati con i trasporti.

In Europa, la situazione è un po’ diversa solo per quanto riguarda il rapporto fra benzine e gasolio. Infatti, le benzine rappresentano circa il 30 per cento dei consumi petroliferi, mentre il gasolio per autotrazione rappresenta oltre il 30. Il gasolio per riscaldamento conserva ancora una quota di poco superiore al 10 per cento. Il jet fuel è più o meno intorno agli stessi valori americani. Nel complesso, in Europa i consumi petroliferi per il trasporto rappresentano circa il 70 per cento, mentre negli Usa sono circa il 75. I consumi non legati strettamente al settore dei trasporti rappresentano quindi fra il 20 e il 25% del totale, con una tendenza ad ulteriori riduzioni.

Da queste considerazioni si comprende come:

1 affrontare il problema energetico, riferendosi esclusivamente al problema elettrico e legando l’analisi della soluzione dei problemi di questo settore al prezzo del petrolio, rischia di essere fuorviante;
2 il problema degli idrocarburi e quello del prezzo del petrolio è fondamentalmente legato alla capacità di individuare e attuare una politica dei trasporti privati e pubblici, che sappia coniugare libertà individuali, efficienza energetica, domanda ambientale, tempi di spostamento effettivi;
3 ogni singolo settore del mercato degli idrocarburi (benzine, gasolio, olio combustibile, jet fuel, eccetera) costituisce una sorta di mercato a se stante, gestito in condizioni di monopolio, a causa delle limitazioni delle tecnologie di trasformazione della materia prima (petrolio greggio) e del controllo della logistica e delle infrastrutture di trasporto da parte di operatori marginali;
4 all’interno di ognuno di questi settori di mercato esiste una quasi totale rigidità fra domanda e offerta di prodotto, per cui anche tensioni marginali si traducono in variazioni enormi dei prezzi. Basta osservare l’impatto che ha sul mercato la pubblicazione del piano delle fermate per manutenzione delle raffinerie Usa o la fermata di un impianto causata da un evento accidentale;
5 la produzione di energia elettrica risulta essere sempre meno dipendente dal prezzo del petrolio e più legata al mercato del gas naturale o altre fonti, nei Paesi in cui sono state attivate. Ovviamente, si tratta di un tema di enorme portata che non può certo essere esaurito nello spazio di un breve articolo, e richiede di essere approfondito in tutte le sue componenti, per evitare che il dibattito sul problema energetico si sviluppi su tematiche marginali, lasciando fuori l’aspetto più critico e che più direttamente impatta sull’economia dei normali cittadini. Di recente nell’Unione europea si è aperto un dibattito che sembra mettere a fuoco in modo nuovo le problematiche energetiche. Speriamo si traducano al più presto in linee guida per i Paesi membri.

 

 
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