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Cambiamenti climatici, un biennio decisivo per cambiare strategia Stampa E-mail
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di Elio Smedile


We have seen great climate leadership from countries and companies, but emissions are still rising, the poor are suffering. This is the year to take action on climate change. There are no excuses. È questo il vibrante appello indirizzato dal presidente della Banca Mondiale Jim Yong Kim ai leader di governo convenuti al Forum economico mondiale di Davos del gennaio scorso perché superino le attuali politiche dei piccoli passi e mettano in campo azioni concrete di più ampio respiro.
Kim ha chiesto, tra l’altro, di raddoppiare il mercato delle obbligazioni verdi (green bond), strumenti atti a supportare le misure di mitigazione e di adattamento climatico nonché i progetti per le fonti rinnovabili, l’efficienza energetica e la riduzione delle emissioni di carbonio.

Nella lotta contro il riscaldamento globale il posizionamento della Banca Mondiale è chiarissimo: il global warming è una minaccia per lo sviluppo sostenibile e la lotta contro la povertà; senza una azione coraggiosa e tempestiva il riscaldamento del Pianeta può divenire un fattore di rischio per il benessere di milioni di persone e arrestare il processo di sviluppo dei Paesi poveri.
Il costo dell’inazione è altissimo e si traduce essenzialmente in vite umane colpite e perdite in investimenti. Globalmente, perdite e danni meteocorrelati – ha detto Rachel Kyte, vice-presidente della Banca Mondiale e Special Envoy per il cambiamento climatico – sono passati dai circa 50 miliardi di dollari l’anno nel corso degli anni ‘80 ai circa 200 miliardi di dollari dell’ultima decade, rendendo critico uno sviluppo clima-resiliente e disastri-resiliente.


Nei Paesi poveri una indagine della stessa Banca Mondiale mostra che il cambiamento climatico può aumentare del 25-30 per cento il costo dello sviluppo e che gli impatti conseguenti potrebbero riportare milioni di persone nella povertà. La Banca sta intensificando la propria attività soprattutto per quel che concerne l’adattamento ai prevedibili impatti del cambiamento climatico e la gestione del rischio catastrofi. L’Istituto è venuto incontro alle sollecitazioni provenienti da molti Paesi per il sostegno alla lotta in corso per vincere le sfide del cambiamento climatico.
La Banca mondiale sta attualmente aiutando 130 Paesi a svolgere azioni di contrasto agli impatti del global warming. Le proposte sono riportate nel Rapporto Building Resilience: integrating Climate and Disaster Risk into Development pubblicato dalla stessa Banca Mondiale e dal GFDRR (Global Facility for disaster reduction and recovery).
Tale Rapporto è stato presentato alla Conferenza delle parti dell’UNFCCC (COP) che si è svolta a Varsavia nel dicembre 2013 ma non sembra avere inciso più di tanto sui risultati del Summit ambientale, il XIX della serie, ancora una volta un fallimento (come quasi tutte le ultime COP) per quel che concerne l’incisività delle azioni da intraprendere. Non è questa la sede in cui analizzare i motivi dei fallimenti (ne ho già discusso in miei precedenti articoli); mi limito a sottolineare come in particolare sia stata deleteria (per quanto riguarda il processo politico-decisionale) la prassi delle Nazioni Unite per cui tutte le decisioni della Conferenza delle Parti richiedono, per essere adottate, il consenso di tutti i Paesi firmatari.


Vorrei sbagliarmi ma temo che, a meno di taumaturgici cambi di rotta (è assai poco probabile che essi escano dalla prossima COP 20 del Perù), l’approdo finale di Parigi 2015 - considerato come una tappa decisiva nei negoziati del futuro accordo internazionale per il dopo 2020 - possa concludersi con le consuete intese minimali. Più concreta e foriera di ricadute positive mi sembra l’iniziativa del segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon di invitare capi di Stato e di governo, esponenti del mondo degli affari e della finanza, rappresentanti della società civile e leader delle realtà territoriali alla partecipazione attiva al Climate Summit che si terrà a New York nel prossimo mese di settembre. “Il Summit - ha detto Ban Ki-moon - è complementare al processo UNFCCC e sarà un incontro di soluzioni e non una sessione di negoziazioni”.


D’altro canto mentre si discute su cosa fare, il processo di cambiamento climatico avanza. Il 2013 secondo l’Organizzazione Meteorologica mondiale (WMO) è entrato nella top ten degli anni più caldi dal 1850. Gli anni più caldi sono stati il 2005 e il 2010 seguiti dal 1998. La temperatura media degli oceani è stata nel 2013 di circa mezzo grado oltre la media del secolo scorso.
A livello regionale si registra una ampia variabilità. L’emisfero boreale ha visto una primavera 2013 più fredda del solito, mentre nello stesso periodo nell’Artico si sono registrate temperature più alte della media stagionale. Per gran parte degli Stati Uniti centroorientali, settentrionali e nord-orientali l’inverno 2013-2014 verrà sicuramente ricordato come uno dei più freddi e nevosi mentre l’inverno moscovita ha avuto temperature di circa 3 gradi e mezzo superiori alla norma, risultando caldo all’incirca come l’inverno 2008-09, ma meno caldo dell’inverno 2006-07.
La variabilità ha riguardato anche la distribuzione delle piogge. Ad esempio, nelle regioni settentrionali del Brasile si è registrata la peggiore siccità degli ultimi cinquanta anni, mentre nel sud si sono avute precipitazioni da record. I monsoni in Asia sud-occidentale sono iniziati in anticipo, con inondazioni e gravi danni nelle regioni al confine tra India e Nepal. Nell’est russo più di 140 città sono state colpite dalla peggiore inondazione degli ultimi 120 anni.
D’altro canto l’evidenza dei fatti è sotto gli occhi di tutti: le emissioni sono in crescita. “400 ppm - ha detto Christiana Figueres, segretaria esecutiva del UNFCCC - è la variazione che si verifica di norma in oltre 100.000 anni e noi l’abbiamo accelerata di oltre 100 volte”. Come è ormai indiscutibile che l’attività antropica sia la causa prima del riscaldamento globale. “Gli impatti dei cambiamenti climatici - afferma l’IPCC - sono già in atto a livello globale e regionale e saranno più forti nel futuro”.
La mia impressione è che ci si sia ormai rassegnati all’inevitabilità degli impatti talché oggi il tema centrale delle azioni di contrasto al cambiamento climatico sembra essere divenuto la resilienza agli shock climatici stessi.


Le previsioni di lungo periodo sugli effetti del riscaldamento globale sono numerose e la maggior parte volte al pessimismo. Sarebbe tuttavia troppo lungo soffermarsi su di esse. Vorrei limitarmi a citare il pregevole lavoro di Camilo Mora e colleghi dell’Università delle Hawaii, dal titolo: The projected timing of climate departure from recent variability pubblicato nell’ottobre/novembre 2013 dalla prestigiosa rivista Nature.
Lo studio dei ricercatori hawaiani ha identificato un indice dell’anno in cui il clima medio di ogni punto sulla Terra si sposterà continuamente verso il più estremo record vissuto negli ultimi 150 anni. Usando come riferimento storico il periodo 1860-2005 l’indice ha una media globale di 2069 in uno scenario di stabilizzazione delle emissioni e di 2047 in uno scenario business as usual. L’indice mostra risultati sorprendenti. Le aree dei tropici saranno le prime a sperimentare entro il prossimo decennio climi senza precedenti. Prevalentemente nei Paesi a basso reddito, oltre un miliardo di persone (nello scenario ottimistico) e 5 miliardi di persone (nello scenario business as usual) vivranno prima del 2050 in aree che sperimenteranno climi estremi.
Da quanto detto emerge la indifferibilità di definire e attivare strategie globali in grado di incidere sulle criticità dell’attuale modello di sviluppo. Il contesto - vista anche la crisi economica che attanaglia tuttora le economie dei Paesi avanzati - non è tuttavia favorevole per iniziative che perseguano un interesse ambientale globale.


Come ho detto in precedenza, non nutro grande fiducia nei risultati che potranno derivare dalla COP parigina, ma sono convinto che i modesti avanzamenti emersi dalle precedenti 19 Conferenze delle Parti sarebbero stati peggiori senza la presenza attiva dell’Unione europea che ha svolto un ruolo di leadership nell’approccio multilaterale ai cambiamenti climatici.
Il ruolo trainante dell’UE (sia della Commissione sia del Parlamento) è confermato dalla adozione di normative comunitarie di grande rilievo quali ad esempio il pacchetto obiettivo “20-20- 20” e le recenti proposte (22 gennaio 2014) della Commissione per l’orizzonte 2030 (riduzione delle emissioni del 40 per cento rispetto al 1990, aumento dello share delle rinnovabili almeno al 27 per cento, aumento del 20 per cento dell’efficienza energetica). Dopo due settimane (5 febbraio ) le proposte della CE sono state giudicate dal Parlamento europeo “miopi e poco ambiziose” principalmente per l’assenza di target nazionali e di azioni per incentivare l’efficienza energetica.


Una formulazione legislativa della Proposta (che tenga conto delle osservazioni del Parlamento europeo) non potrà arrivare prima di alcuni mesi e, con tutta probabilità, l’approvazione finale sarà compito delle nuove strutture comunitarie. Come si sa, infatti, le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo si effettueranno il 22-25 maggio 2014, la Commissione decadrà e il Parlamento neoeletto ne designerà il nuovo Presidente.
Ma qui nasce il problema. L’attuale Commissione e il Parlamento in carica hanno difeso con fermezza il ruolo dell’Unione europea quale caposaldo di una politica attiva di lotta a lungo termine contro il cambiamento climatico. Lo faranno anche il prossimo Parlamento e la prossima Commissione? C’e da dubitarne.
Secondo alcuni sondaggi nel prossimo Parlamento europeo a 28 Paesi potrebbero avere un grande successo (fino ed oltre il 30 per cento) i movimenti populisti e antieuropeisti. Se finora si dava per scontata la loro presenza massiccia nei Paesi dell’Europa orientale, oggi sembra che potrebbero avere largo seguito anche in Francia, in Gran Bretagna, in Olanda, ma forse anche in Italia, in Austria, in Grecia e in altri Paesi ancora.


È probabile dunque che il prossimo Parlamento europeo sia fortemente connotato in senso euroscettico e che anche nella Commissione europea siano rappresentate queste forze populiste ed euroscettiche. Perché questo fatto desta preoccupazioni? Per quanto minoranza (1/4 o 1/3 del Parlamento) questi movimenti potrebbero condizionare l’agenda politica dell’Unione e molti programmi potrebbero segnare il passo. Si può scommettere che praticamente tutti questi gruppi saranno ostili ad ogni approfondimento del processo di integrazione e ciò non potrebbe che penalizzare quei settori come l’ambiente e l’energia che necessitano di politiche fortemente integrate.
D’altro canto è prevedibile che le forze ambientaliste presenti nel Parlamento europeo (attualmente i Verdi sono il quarto gruppo per numero di deputati) usciranno fortemente ridimensionate dalle elezioni del prossimo maggio. Sicuramente non ci troviamo nelle condizioni migliori per affrontare un biennio decisivo per la lotta al cambiamento climatico, ma la politica europea ci ha abituato a imprevedibili cambi di prospettiva. Si vedrà.

 
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