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DI TUTTO UN PO' 305 - Questo è un popolo di barbieri ma non di Siviglia Stampa E-mail

In questi tempi sembra che il consumo di prodotti per la rasatura sia in continuo aumento. Ne fanno uso indistintamente donne e uomini, precisando che le prime non sono afflitte da un’improvvisa epidemia di virilismo pilifero e che i secondi, a onor del (mo)mento, pur difficile, continuano nel loro rito quasi quotidiano.

L’incremento è di carattere metaforico, poiché il popolo italiano da sempre - ma ultimamente ancor di più - si dedica alla pratica del pelo e contropelo. Operazione a volte pericolosa soprattutto se praticata dopo aver lisciato il pelo a qualcuno poiché questi, come la cute, si irrita per il contrastante trattamento subìto. Alla pratica nazionale non si è sottratto nemmeno il film “La Grande Bellezza” che, incoronato con l’Oscar, ha rianimato d’improvviso il residuo orgoglio nazionale.

Come in altre occasioni, vedi eventi soprattutto calcistici, molti connazionali si sono immedesimati nella parte (tradizionalmente gradita quella del vincitore). Per qualche giorno, ci siamo sentiti un po’ registi, un po’ attori, un po’ grandi e belli, condizione che patriotticamente è tanto auspicabile quanto poco oggettiva nel presente. Ciò non toglie che buona parte della nazione, per un verso o per l’altro abbia gioito, parlando con passione del lungometraggio roman-Sorrentino. Ottimi il pre-barba, la schiuma (a scelta, spray o a pennello), il dopo-barba e l’eventuale massaggino facciale con pannicello caldo. Ma il viso non è rimasto rilassato. Le rughe, visto che le pratiche sono abitudinarie, si sono manifestate, con qualche pelo dolorosamente incarnito.

Il fenomeno è pressappoco riassumibile così. Prima dell’assegnazione dell’Oscar, il film era passato nelle sale cinematografiche senza suscitare il grande entusiasmo raccolto poche settimane fa. A parte gli intenditori, se la battutina è lecita, il pubblico non lo aveva considerato di “grande bellezza”. Poi, il film è passato in tv, in una serata memorabile per lo share, e il dibattito s’è aperto come in quei vecchi cineforum - dove ognuno diceva la sua - pilotati dal curato o più laicamente da qualche intellettuale di sezione di partito.

Niente di male, la dialettica fa sempre bene (Putin la pensa diversamente, Renzi decisionista più moderato se ne fa una ragione delle contestazioni) e, quindi, giù di brutto a tirare la pellicola come una giacchetta. Come sempre, tirata ora a destra ora a sinistra. Al centro il pubblico che, ad essere sinceri, come ho scoperto da un mio sondaggio di quartiere, non ha ritenuto memorabile il film. Molta curiosità, ma anche perplessità su qualche passaggio ritenuto ermeneuticamente criptico sia nelle scene sia nell’inflessione degli interpreti (considerando l’ambientazione capitolina, ci può stare la koinè mistolocale come, anche, qualche sottotitolo nei momenti topici della narrazione qualora il film sia riproiettato nelle sale nordiste).

Chiacchiere, forse, da barbiere, leggere e volanti come si addice a chi gode di fruizione estetica che non si è formata in una Ecole d’Études Cinetographiques. Raffreddati i festeggiamenti oscariani, il film è diventato ancella della ben conosciuta sociologia politica, tirando la volata a considerazioni di vario genere polemico sull’ex caput mundi. Ci può stare, ma che barba. Alla faccia della Settima Arte.


Giuliano Agnolini
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