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PAUSA-ENERGIA
 
Liberalizzazione all'italiana (purtroppo) in salsa francese Stampa E-mail

di G.B. Zorzoli

Sono passati pochi anni, eppure sembrano tempi lontani anni luce. Si fa perfino fatica a ricostruire nella memoria il dinamismo imprenditoriale che caratterizzò in Italia la prima fase del processo di liberalizzazione del mercato elettrico. Sembra appartenere a un altro Paese, o per lo meno a un’altra era geologica, l’impegno con cui all’inizio parteciparono alla gara per la prima Genco non solo Edison, Sondel ed Enipower, società già presenti nel settore con un certo numero di centrali elettriche, non solo tutte le principali aziende dei servizi pubblici locali (ASPL), ma anche imprenditori privati di prima grandezza: Fiat, De Benedetti, Merloni, Dalmine, solo per citare i più noti. Altrettanto nutrita la presenza di utility europee e americane e di un numero significativo di produttori indipendenti.

Un siffatto parterre des rois sembrava garantire una competizione degna di questo nome, a tal punto che il governo dell’epoca pensò bene di mettere dei paletti per evitare che il peraltro timido processo di privatizzazione dell’Enel (ancora oggi gli azionisti di riferimento sono pubblici) si risolvesse nel passaggio della proprietà delle Genco ad aziende egualmente controllate da istituzioni pubbliche. Di conseguenza, con un decreto ad hoc vietò a questa tipologia di imprese di detenere da sole o congiuntamente più del 30% del capitale di un soggetto intenzionato ad acquisire una delle tre società ex-Enel.
In pratica, oltre a Enipower il provvedimento colpì soltanto la joint-venture di cui detenevano la maggioranza Aem Milano, Aem Torino e Acea. Forse l’iniziativa non avrebbe retto lo stesso sul lungo periodo, sia per la difformità di obiettivi fra le tre aziende sia per la loro capacità effettiva di sopportare da sole il peso finanziario e gestionale di una simile impresa, ma sta di fatto che lo scioglimento della joint-venture venne determinato dai vincoli posti dal decreto.

Sventato il pericolo, tutto sembrò procedere nel migliore dei modi possibili, solo che - strada facendo - il nucleo degli arditi imprenditori italiani si andò assottigliando e alla fine, delle tre Genco, una (Endesa Italia) si ritrovò con due soci spagnoli - che insieme detenevano la stragrande maggioranza delle azioni - e Asm Brescia in qualità di socio di minoranza; un’altra (Tirreno Power) con la presenza fifty-fifty da un lato di un’intesa paritaria fra l’azienda privata belga Electrabel e Acea, dall’altro di Energia Italiana, una società controllata dal gruppo De Benedetti e partecipata da due altre aziende di servizi pubblici locali, Hera e Amga; mentre nella terza (Edipower) Edison era il socio di riferimento (40% del capitale azionario), con partecipazioni di minoranza delle due Aem di Milano e Torino e della svizzera Atel.

Peccato che nel frattempo Edison avesse perso la sua connotazione originaria, finendo sotto il controllo di una società (Italenergia, poi diventata Italenergia bis) dove a fianco di una Fiat in crisi e di alcune banche entrate con funzione provvisoria di supplenza, autentico convitato di pietra sedeva Edf. Situazione resa particolarmente imbarazzante dall’impegno assunto da Edf di rilevare le quote di Fiat e delle banche, arrivando così al controllo del 100% di Italenergia bis, e certamente non risolta dal decreto che nel 2001 aveva bloccato al 2% il diritto di voto di Edf nella società, su cui pendeva la spada di Damocle di un parere negativo di Bruxelles.

Per uscire da questo pasticcio vengono avviate trattative fra il Governo italiano e quello francese, una soluzione che di per sé fa a pugni con lo slancio liberistico che aveva caratterizzato l’avvio della riforma del mercato elettrico italiano. Tant’è, con il plauso dei più, il 6 maggio di quest’anno dal cilindro della trattativa fuoriesce il coniglio che risolve tutti i problemi. Attraverso una serie di passaggi intermedi, alla fine Edison sarà controllata da una nuova società, Transalpina di Energia, partecipata fifty-fifty da Edf e Delmi, a cui partecipa come socio di maggioranza Aem Milano, mentre ad altre aziende di servizi pubblici locali vanno quote di minoranza.

Anche fingendo di ignorare che il divieto di una partecipazione al controllo delle Genco non superiore al 30% da parte di aziende pubbliche sia stato allegramente aggirato (lo statuto di Aem conserva al comune di Milano il controllo della società anche se non ha più la maggioranza del capitale azionario), la soluzione concordata di parità formale fra un colosso come Edf - che per sovrappeso ha le spalle coperte da un governo tradizionalmente dirigista - e una media impresa come Aem è sembrata subito assai precaria. Non a caso pochi giorni dopo l’accordo fra i due governi Aem ha ribadito l’intenzione di arrivare al controllo di Atel, rilevando dalla banca svizzera Ubs il pacchetto di maggioranza della società Motor Columbus, che in portafoglio ha il 58,5% delle azioni di Atel.

Il perché dell’interesse di Aem per l’operazione appare subito evidente: Atel non solo è un importante produttore elettrico (13 miliardi di kWh/a), non solo di energia ne vende molta di più (93 miliardi di kWh/a, di cui una frazione importante - proveniente da Edf - viene veicolata in Italia), ma possiede anche il 42% della capacità degli elettrodotti che collegano la Svizzera al nostro Paese.
Il controllo di un’azienda con un ruolo siffatto a livello europeo e italiano avrebbe quindi consentito ad Aem un salto di qualità, trasformandola in un più autorevole interlocutore di Edf, tanto che subito dopo l’annuncio dell’azienda milanese erano circolate con insistenza indiscrezioni secondo le quali nel pacchetto dell’accordo fra i Governi italiano e francese rientrava anche l’assenso a tale operazione. Assenso importante, visto che Edf possedeva il 20% delle azioni di Motor Columbus.

A smentire indiscrezioni e illusioni è arrivata la decisione di Ubs di cedere il proprio pacchetto azionario di Motor Columbus proprio a Edf, che all’iniziativa ha associato alcune società elettriche svizzere. Il risultato di questa operazione, di segno esattamente opposto a quello cui mirava Aem - in quanto rafforza ulteriormente il peso di Edf a livello europeo ma soprattutto italiano - chiarisce a chi ancora non l’avesse inteso l’interpretazione che i francesi danno dell’accordo raggiunto fra i due Governi. Sarà coincidenza puramente casuale, ma contemporaneamente sono emerse difficoltà nell’acquisizione da parte di Enel del 35% della società Snet, che pure era parte integrante di tale accordo.

A questo punto si può continuare a discutere all’infinito se sulla ridotta presenza di grandi imprese italiane e sul loro scarso peso specifico pesi in modo determinante la cronica debolezza dei nostri Governi, o viceversa se non sia l’assetto economico dominato da un capitalismo poco propenso a rischiare i propri capitali a rendere così discontinua e impacciata l’azione governativa. Poiché la somma di due debolezze non ha mai prodotto una forza, sarebbe forse più realistico prendere atto di un dato incontrovertibile: il mercato funziona se si realizza un equilibrio dinamico fra solide regole, imprese robuste e pubblici poteri autorevoli.
Lascio al lettore stabilire quanto nella realtà italiana ciascuno dei tre fattori sia distante dal suo modello ideale.

 
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