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L'onda della crisi arriva tardi ma picchia due volte Stampa E-mail
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di Chicco Testa | Presidente Assoelettrica



So benissimo che lamentarsi è cosa noiosa e improduttiva. E infatti non mi lamento. Faccio soltanto qualche conto. Poi, prendo i risultati e li moltiplico per qualche ragionevole coefficiente. E arrivo così ad un risultato finale, che è per metà fondato sulle cifre e per metà sostanziato da valutazioni di ordine politico, nel senso della politica economica e di quella energetica: la situazione in cui versa il settore elettrico italiano è davvero assai grave e richiede una presa di coscienza degli attori istituzionali e una visione strategica nuova.


Ma andiamo con ordine, cominciando dal quadro economico generale. Sarebbe davvero curioso se il settore elettrico non risentisse della recessione che il Paese sta attraversando da ormai cinque anni. Anzi, sarebbe miracoloso. Perché se l’industria rallenta o sceglie altri Paesi, se migliaia di attività commerciali chiudono, se le famiglie si vedono costrette a risparmiare denaro per ogni dove, è evidente che i consumi elettrici si riducono.
I dati, ancora provvisori, relativi al 2012 dicono che la domanda di energia elettrica sì è contratta di quasi 3 punti percentuali rispetto al 2011, anno che aveva visto un lieve recupero, dopo quello registrato nel 2010 e la drastica contrazione del 2009 (meno 6 per cento sul 2008). In gennaio e in febbraio le cose sono andate male, anzi: malissimo, con due ulteriori segni meno. Il risultato è che siamo tornati ai valori di domanda del 2003 e, se la recessione economica proseguirà imperterrita per tutto l’anno, chiuderemo un 2013 su valori prossimi a quelli registrati nel 2001.


Ma a rendere davvero grave la situazione non sono soltanto questi infelici numeri di partenza. Vi sono almeno un paio di contingenze che intervengono infatti come una sorta di moltiplicatore. La prima è costituita dal fatto che a partire dal 2001 le imprese elettriche italiane hanno investito decine di migliaia di miliardi di lire in nuovi impianti di generazione, per lo più cicli combinati a gas ad elevata efficienza. Quanta efficienza? Vale la pena di mettere qualche numero, per capire di che cosa si sta parlando: oggi le nuove centrali a gas italiane generano energia in misura superiore al 50 per cento dell’energia in input, mentre i vecchi impianti termoelettrici superavano a malapena il 30 per cento. Questo ha significato ridurre drasticamente le emissioni in atmosfera sfruttando nella misura massima possibile la fonte primaria.


Benissimo, siamo stati davvero bravi. Ma c’è un problema di non poco conto. Quando si fa un investimento si pianifica un ritorno sull’arco di dieci-venti anni e, se è vero che nell’anno ci sono 8.760 ore, un operatore farà conto che la sua centrale a gas nuova di zecca possa produrre per 4-5 mila ore l’anno, in modo da poter far fronte agli impegni finanziari assunti e offrire agli azionisti un ragionevole margine di redditività.
Bene: nel 2011 le centrali termoelettriche a ciclo combinato a gas hanno in media funzionato per sole 2.633 ore e per il 2014 si prevede un calo intorno a 2.400 ore. Con questi numeri, molti operatori sono nella condizione di dover escludere qualsiasi remunerazione del capitale e dovranno rinegoziare almeno parte degli impegni di ordine finanziario assunti.


La seconda contingenza è quasi più cattiva della prima. Si chiama fotovoltaico. Sia chiaro: lo sviluppo della generazione elettrica che utilizza il sole come fonte primaria è cosa sacrosanta, giusta e necessaria. Nessuno vuole sostenere che costituisca in sé qualche cosa di negativo. Ma sappiamo bene quali effetti abbiano determinato le politiche ultragenerose di incentivazione decise nel passato: tra il 2010 e il 2011 la produzione elettrica da fotovoltaico è passata da meno di 2 a più di 9 miliardi di kWh e nel 2012 ha superato i 18 miliardi. Sono 18 miliardi di kWh che costano agli Italiani quasi 7 miliardi di euro l’anno e che vanno a sottrarsi alla generazione dei cicli combinati a gas, la quale non gode certo di incentivi.


Torniamo al principio: non ci lamentiamo, perché non ci piace e non è utile. Ma deve essere ben evidente a tutti la necessità di introdurre dei correttivi capaci di riequilibrare le sorti del settore.

 
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