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Oil&gas, e se gli States diventassero autosufficienti? Stampa E-mail
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di Davide Canevari


Green economy, la parola d’ordine pronunciata dall’America per superare la perdurante fase di stallo dell’economia mondiale potrebbe non essere più la sola. All’orizzonte - non certo remoto - si affaccia un’alternativa decisamente più classica: un clamoroso ritorno al petrolio, anche se coniugato in chiave moderna e innovativa. Tutto nasce dallo studio Energy 2020: North America as the New Middle East, preparato da Ed Morse e da un gruppo di giovani esperti di Citigroup. Un documento dirompente che viene presentato e commentato in queste pagine da Marcello Colitti, una vita nel Gruppo Eni, tra i membri fondatori dell’Oxford Energy Policy Club.

“Si tratta di qualcosa di realmente clamoroso - riassume Colitti - sulla capacità futura degli Usa di produrre oil&gas e sulla trasformazione del Paese americano da grande importatore a realtà del tutto autosufficiente o, addirittura, in grado di esportare un surplus produttivo. Una scelta che innescherebbe una rivoluzione generale, non solo di carattere energetico, ma anche politico, sociale, economico, industriale”.


Ci può illustrare gli aspetti generali del piano?
**Per rispondere cito un ampio passaggio estratto della presentazione dello studio Energy 2020. “Uno straordinario cambiamento si può verificare nella reindustrializzazione degli Stati Uniti, basato sul costo per la materia prima petrolchimica più basso al mondo, con la sola possibile eccezione del Qatar. Le conseguenze economiche di questa rivoluzione della domanda e dell’offerta sono potenzialmente straordinarie. L’impatto cumulativo della nuova produzione di petrolio, della riduzione delle importazioni, delle attività associate a questi cambiamenti, potranno aumentare il reddito reale americano dal 2 al 3,3 per cento; il che vuol dire da 370 a 624 miliardi di dollari del 2005. Di questo aumento, 274 miliardi di dollari potranno venire direttamente dalla nuova produzione di idrocarburi, mentre il resto sarà generato dall’effetto moltiplicativo, attraverso il quale l’aumento dell’attività economica produrrà maggiore ricchezza, una più elevata spesa per consumi e un effetto sugli investimenti che interesserà tutta l’economia”.


E per quanto riguarda i target di produzione?
**Gli Stati Uniti potrebbero passare dall’attuale offerta di combustibili liquidi di produzione interna, pari a 9 milioni di barili/giorno, a 11,6 milioni già nel 2015 e a 15,6 milioni nel 2020. Come già accennato, rilevante non è solo l’entità della produzione futura di petrolio e di gas, per altro davvero impressionante, ma anche il fatto di ribadire che l’industria può e deve riprendere il suo storico ruolo nella produzione del reddito. Dopo tanti anni in cui ci si è illusi che i servizi fossero la chiave dell’economia, c’è finalmente uno studio serio che presenta un progetto per la reindustrializzazione dell’America. Una svolta allo stesso tempo profonda e tempestiva, poiché avviene mentre gli USA si stanno sforzando di superare gli effetti che ancora durano della crisi finanziaria del 2008.


Non le sembra un piano un po’ troppo ambizioso?
**Le cifre in gioco sono sorprendenti, ma lo studio di Ed Morse è perfettamente presentato, con un notevole supporto di tabelle e di grafici; ed è certamente basato su una informazione tecnica molto più ampia di quella qui sintetizzata. Il grande sviluppo della produzione di gas naturale negli USA, che porterà il Paese a diventare un esportatore, è già avvenuto e la produzione di petrolio potrà seguire. Gli Stati Uniti prevedono di raggiungere nel 2020 una produzione che nessuno ha mai raggiunto. Considerando anche l’apporto dei due Paesi limitrofi - Canada e Messico - si arriva a valori che sono addirittura superiori alla produzione attuale dell’OPEC.


E questo non è certo un fatto secondario, anche da un punto di vista geopolitico…
**Infatti. La posizione degli autori dello studio è netta. Per troppi anni siamo stati legati alle importazioni di greggio e abbiamo dovuto garantire l’approvvigionamento anche a costo di gravi difficoltà. Ora, volendo, non abbiamo più bisogno di controllare il Medio Oriente e, quindi, di parlare con gli europei. E questo potrebbe avere conseguenze clamorose anche nel Vecchio Continente.


Più nel dettaglio…
**L’energia può essere da questo momento un problema interno degli Stati Uniti; la politica estera americana potrà così guadagnare un’amplissima area di libertà; il che potrà ridurre l’importanza dell’Europa, ormai vista come una entità ripiegata su se stessa e incapace di affrontare realmente una crisi finanziaria che dura da anni, fino a trasformarsi in una vera e propria recessione economica.
Ma la conseguenza più importante si avrà soprattutto sull’industria petrolifera e sul posizionamento dell’OPEC. Un’America indipendente dalle importazioni di petrolio implica necessariamente una riduzione del controllo dell’OPEC, non solo a causa della domanda che non aumenta, ma anche perché il prezzo del greggio sarà dettato dagli Stati Uniti. L’idea stessa di sommare nello studio le produzioni di tre Paesi - Usa, Messico e Canada - potrebbe essere un’indicazione del nuovo possibile indirizzo della politica estera americana.
A suo tempo il presidente Eisenhower chiuse il mercato petrolifero americano all’importazione; e questo fu l’ultimo tentativo di mantenere una produzione interna sufficiente per coprire il fabbisogno del Paese. Poi la produzione interna si ridusse e gli Stati Uniti si dovettero rassegnare alle importazioni. All’inizio della presidenza Bush junior, si tentò invano di resuscitare l’idea dell’autosufficienza. Adesso lo sviluppo della tecnologia ha cambiato il quadro e perseguire quell’obiettivo non è più irrealistico.


Veniamo ora agli aspetti strettamente tecnologici e industriali.
**Lo studio indica che il grande aumento della produzione sarà dovuto a tecnologie nuove o quasi nuove: acque profonde, petrolio delle sabbie, terreni con permafrost, petrolio pesante non convenzionale, biocarburanti prodotti dall’agricoltura. Queste cifre hanno implicazioni molto rilevanti. Esse danno una risposta precisa a coloro che ancora credono che le riserve di petrolio stiano finendo. Il pericolo delle riserve petrolifere mondiali in rapida diminuzione non è affatto reale; l’intera questione è basata sullo sviluppo della tecnologia.


E il famoso picco? La fine del petrolio che da decenni sembra sempre dietro l’angolo?
**Una delle conseguenze immediate e generalizzate di questo studio è proprio la conferma che il petrolio non sta affatto per finire. Questa è una leggenda – basata sull’asserto che la tecnologia non progredisce – che non possiamo più continuare a raccontare. Al contrario, proprio lo sviluppo tecnologico può cambiare e sta cambiando clamorosamente lo scenario di riferimento, liberando risorse che prima non potevano essere sfruttate. È Il cambiamento della tecnologia il vero driver! E seguendo questa strada si potrà ridare al petrolchimico un risalto che aveva perduto negli Stati Uniti e che certamente ha perduto in Europa.


E alla sindrome Nimby nessuno ha pensato?
**Naturalmente lo studio non presenta le sue conclusioni come se fossero facili da raggiungere. L’aumento della produzione di petrolio richiederà certamente la soluzione di problemi relativi all’opinione pubblica, agli elettori, a una ritorno tendenziale dell’economia alle fonti energetiche tradizionali. Ma va chiarito, ancora una volta, che qui si tratta di una scelta epocale, dopo 20 anni in cui si è parlato solo di finanza. Lo studio propone di dare nuova vita all’industria, che è stata fino ad ora piuttosto trascurata da un Paese affascinato dagli investimenti all’estero e dalla finanza, e dalla sua immediata conseguenza, la speculazione. L’export di capitali dagli Usa e dall’Europa verso i Paesi emergenti (che non sono necessariamente nazioni povere) è arrivato a mille miliardi di dollari/anno. Perché? Perché in patria le prospettive reali di investimento sono limitate. O forse, erano: adesso le cose potrebbero cambiare.


Perché lo studio è stato presentato proprio in questi mesi?
**Il momento scelto per presentare questo progetto non mi sembra casuale. Vuole essere una chiara proposta al prossimo presidente degli Stati Uniti per seguire una politica di reindustrializzazione, perché si occupi del mercato interno e delle capacità produttive del Paese. Ed è allo stesso tempo una proposta che gli Stati Uniti riprendano la loro libertà operativa a livello mondiale, abbandonando le limitazioni imposte dalla necessità di importare greggio e quindi di mantenere aperte “con qualunque mezzo” le vie del petrolio. L’effetto più importante sarà il ritorno degli Stati Uniti all’industria e alla produzione fisica; forse il problema della disoccupazione sarà finalmente risolto con il ritorno alla produzione materiale.


Pensare a un progetto tanto ambizioso e all’immobilismo dell’Italia in termini di politica energetica suscita un sorriso un po’ amaro. Non c’è davvero nessuno spunto che potremmo cogliere?
**L’Italia è un Paese importatore di greggio, che paga il petrolio cifre folli ed è costretta a subire pressoché passivamente gli aumenti esterni. Quando il prezzo sale l’unica risposta è un calo della domanda. C’è poco da fare a livello di politica energetica interna. A meno di…


A meno di?
**Anche da noi esistono ancora importanti giacimenti di gas naturale, che si potrebbero sfruttare. Non sono immensi, ma tenere i pozzi chiusi non è certo una scelta razionale e conveniente. Probabilmente siamo troppo ricchi per guardare a questi aspetti.
Un altro tema, che andrebbe affrontato, con una strategia di lungo periodo, è quello dei trasporti, soprattutto in ambito urbano. Non abbiamo in casa petrolio e non sappiamo (più) costruire le automobili. Eppure ragioniamo solo in termini di mobilità privata e non sviluppiamo il trasporto pubblico; basta vedere lo stato in cui versano i treni pendolari. È assurdo!


Riconosciamo almeno all’Italia di aver fatto molto per lo sviluppo delle rinnovabili, in particolare il fotovoltaico…
**Il fotovoltaico va benissimo; più ce n’è meglio è. Ma non dimentichiamoci che questa fonte può produrre solo elettricità e non incide quindi sul settore trasporti. A meno di investire in infrastrutture come metropolitane e linee ferroviarie. E questo ci riporta esattamente al punto di prima, al fatto che siamo troppo ricchi. O, meglio, incomprensibilmente ci comportiamo come se lo fossimo, privilegiando sempre le opzioni energetiche più costose. Il nostro è un Paese piacevole, con molti pregi, ma non ha la capacità di ragionare in prospettiva e di programmare il proprio futuro.


Con le liberalizzazioni si è cercato di dare una svolta. O almeno, di ridurre i costi per i consumatori finali.
**Specie in una situazione come la nostra, le liberalizzazioni non possono fare nulla nel breve periodo contro i mercati. Una vera strategia di ottimizzazione della conduzione energetica del Paese non è mai stata pensata e non sono stati concepiti progetti di ampio respiro e di lungo periodo (come, ad esempio, la già citata revisione degli attuali modelli di trasporto pubblico urbano). Il resto, da solo, può cambiare ben poco.


Vale anche per il distacco tra Eni e Snam?
**Personalmente lo considero un’assurdità. Nell’industria del gas operano due soggetti. Il primo è la compagnia petrolifera che cerca i giacimenti e li sfrutta. Quando una ricerca ha esito positivo, diciamo che investendo “10” nella perforazione del pozzo si può ottenere “100” o “1.000” dalla materia prima che si estrae. Non sono importanti le proporzioni, ma capire che così operando la compagnia petrolifera ha finanza, denaro, disponibilità economiche. Ed è quindi in grado di fare grandi investimenti e di realizzare infrastrutture di rilievo.
Chi compra e vende gas – il secondo soggetto – ha un profitto commerciale che deriva dalla sua attività, ma non ha finanza. Se separiamo queste due entità, rischiamo di impoverire solo la seconda. E se a quel punto chi compra e vende gas deve costruire un nuovo gasdotto o garantire un contratto di lungo periodo, come fa? Il rischio che corriamo è di finire in mani straniere: Snam potrebbe fare la stessa fine di Edison.


Il Mattei che lei ha conosciuto personalmente cosa potrebbe fare oggi? Nel 2012 potrebbe rifare un’altra Eni?
**Oggi Mattei non sarebbe più lui; non potrebbe essere lo stesso. Mattei non era solo: un gruppo di persone – parte delle quali operava nella politica – proveniva dalla sua stessa matrice e ragionava quindi nel suo stesso modo. Oggi tutto è cambiato. O forse ce l’avrebbe fatta anche nel 2012; era un personaggio molto flessibile e con una grande capacità di inventiva…
Mattei ha costruito in Italia un’azienda che è un fenomeno impossibile. Quando è morto si pensava che l’azienda sarebbe fallita: l’Eni aveva solo il 12 per cento di capitale proprio, il resto erano tutti debiti. Ma quell’azienda aveva i giacimenti, produceva gas:e quelle erano garanzie tangibili. Per fare il passo successivo – la metanizzazione dell’Italia – ci voleva la finanza; e lo Stato h a deciso di metterci i soldi e ha creato così una grande impresa.
Quando abbiamo iniziato questo progetto industriale ci siamo dati come obiettivo di lungo periodo quello di raggiungere la soglia di un 1 milione di barili/giorno. Oggi l’Eni è arrivata a quasi il doppio. Speriamo che ora non si riesca a distruggere questo raro (e forse unico) capitale nazionale.

 
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