COOKIE
 
PAUSA-ENERGIA
 
Senza liberalizzazioni e privatizzazioni la crescita è un miraggio Stampa E-mail
Torna al sommario

di Giuseppe Gatti



Nei momenti di maggiore difficoltà l’Italia ha sempre trovato nel riferimento all’Europa la leva per raddrizzare la situazione e rimettersi in carreggiata. Così è stato nell’estate del 1992, quando dovemmo uscire dal sistema monetario europeo, ma al tempo stesso creare le condizioni per un successivo rientro: in quel traumatico passaggio il Governo Amato trovò la forza per una drastica correzione di rotta, abbandonando dopo un decennio la folle corsa all’espansione della spesa corrente. Parimenti fu l’entrata nell’Euro la carta vincente del primo Governo Prodi, che riprese un deciso contenimento del rapporto deficit/Pil, vanificato poi dalla dissipazione dei cinque anni del Governo Berlusconi dal 2001 al 2006, quando Giulio Tremonti praticava la finanza creativa (quantum mutatus ab illo…).

Sempre all’Europa dobbiamo la liberalizzazione dei mercati energetici: se non fossero state approvate le due Direttive sui mercati interni dell’energia elettrica e del gas, nonostante il convinto impegno di Bersani e di Letta, avremmo ancora il monopolio di Enel e di Snam. Non stupisce dunque che a fronte della tempesta che ha investito il nostro debito pubblico il Governo si sia rivolto alla BCE: far apparire come richiesti dall’Europa sacrifici che in realtà sono imposti dalle insufficienze e dagli errori della politica economica degli ultimi anni era il miglior lasciapassare che ci si potesse procurare per giustificare la manovra.

Solo che le indicazioni della BCE erano assai diverse da quelle messe in pratica. La lettera a firma congiunta di Trichet e Draghi era imperniata su tre punti essenziali: liberalizzazioni, privatizzazioni e riduzione della spesa pubblica. I risultati sono secco aumento delle tasse, in minor misura tagli alla spesa, soprattutto di Regioni e Comuni (e quindi ancora inasprimenti fiscali per finanziare i servizi locali, comunque ridotti). Di liberalizzazioni non c’è ombra e le privatizzazioni sono ridotte ad una fantomatica dismissione del demanio pubblico, di cui si parla da oltre vent’anni e che, anche se finalmente vi si ponesse mano, non è operazione di breve periodo.

C’era un’alternativa? Certo che c’era: puntare decisamente proprio sulle due voci ignorate, liberalizzazioni e privatizzazioni; le liberalizzazioni per stimolare la crescita, le privatizzazioni per ridurre lo stock del debito e quindi la spesa per interessi (che scende non solo perché c’è un minor volume di debito da finanziare, ma anche perché la riduzione del debito abbassa il livello del tasso d’interesse). Il ministero dell’Economia detiene (direttamente e indirettamente, attraverso la Cassa Depositi e Prestiti) un ingente pacchetto azionario: Enel, Eni, Finmeccanica, Rai, Poste, Ferrovie, oltre i residui dell’IRI e partecipazioni minori. Il motivo per cui lo Stato debba rimanere il principale o unico azionista di queste società è usualmente nascosto nella magica formula dell’interesse “strategico”: Enel ed Eni sono essenziali per la sicurezza energetica, Finmeccanica si occupa di un settore vitale e delicato come la difesa, la Rai deve garantire il servizio pubblico (confesso che non ho mai capito bene in cosa consista, dato che l’unico servizio pubblico è quello di Televideo) e via mistificando.

Se queste sono le ragioni, vorrei sapere perché una potenza militare di rango alquanto superiore all’Italia, come gli Stati Uniti, ha un’industria della difesa totalmente privata, e come faccia a sopravvivere la Gran Bretagna che ha privatizzato completamente l’industria elettrica e quella del gas. Ricordo allora la lezione che molti anni fa mi impartì uno degli ultimi boiardi di Stato: quando vuoi difendere una scelta e sei a corto d’argomenti (in realtà l’espressione era un po’ più colorita) tira fuori l’interesse strategico e nessuno dirà più niente. Non è soltanto lo Stato che ancora ha un lungo percorso di privatizzazioni.

Lo stesso discorso vale per gli enti locali: come lo Stato anche i Comuni non sanno fare gli azionisti. Oggi in tutto il settore pubblico abbiamo un management, sovente anche di buona qualità, ma assolutamente autoreferenziale nel definire mission e strategia delle società. L’azionista non ha capacità di vision ed è inadeguato a compiere le vere scelte strategiche che si impongono. Soprattutto a livello dei Comuni, l’unica preoccupazione è estrarre il massimo dei dividendi possibile, anche se ciò comporta un indebolimento della posizione finanziaria e delle capacità d’investimento delle società.
La vicenda di Edison e di Edipower è esemplare al riguardo: del tutto velleitario pensare che A2A possa reggere il confronto con i francesi in una eventuale asta, dopo essere stata spolpata in questi anni da Milano, come da Brescia. Quanto al basso corso attuale delle azioni, l’obiezione vale anche per gli immobili e dunque non tiene. La verità è che liberalizzazioni e privatizzazioni in questo Paese continuano a non essere un obiettivo, ma allora anche la crescita rimane un miraggio.

 
© 2005 – 2024 www.nuova-energia.com