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A chi vanno gli aumenti del prezzo del petrolio? Stampa E-mail
a cura di Drilling

Abbiamo assistito negli ultimi anni a dibattiti circa le conseguenze del caro petrolio sull’economia mondiale, che rischiano di non cogliere alcuni aspetti fondamentali del processo di reale distribuzione degli aumenti fra gli attori del ciclo petrolifero. Senza una chiara individuazione di questi meccanismi, spesso l’analisi dell’impatto degli aumenti del petrolio sull’economia risulta vaga e poco attendibile. In effetti c’è sicuramente un trasferimento di risorse dai consumatori, in quanto singoli utenti, verso i “produttori” del sistema petrolifero nel suo complesso, ivi comprese le istituzioni statali dei Paesi consumatori (tassazione progressiva sui prodotti petroliferi). Gran parte dei margini creati dall’aumento del petrolio rimangono però in mano ad alcuni settori dell’industria petrolifera, quella meno impegnata negli investimenti di lungo periodo, e alimentano forme di rendita di posizione.
I contratti di concessione mineraria prevedono quasi dei meccanismi di ripartizione delle revenues petrolifere fra Paesi produttori e compagnie, al variare del prezzo del petrolio. L’esame di questi meccanismi è estremamente complesso e fortemente variegato in funzione delle diverse aree geografiche e dei rapporti di forza esistenti nelle specifiche situazioni. Certamente, possiamo dire che una parte dell’aumento del prezzo del petrolio oggi viene ripartito fra Paese produttore e compagnia petrolifera, che sviluppa e produce il greggio. Vorremmo tuttavia focalizzare l’analisi su alcuni effetti degli aumenti, di cui si parla poco e che invece stanno determinando cambiamenti importanti nell’industria petrolifera. Penso in particolare ai cosiddetti margini di raffinazione, ovvero il margine unitario che un raffinatore ottiene quando compra un barile di petrolio greggio, lo raffina e vende i prodotti ottenuti (benzina, gasolio,…) sui mercati internazionali.
Durante gli anni ‘80 e ‘90 i margini di raffinazione erano bassi, appena sufficienti a coprire i costi fissi e a garantire un leggero profitto a coloro che avevano costruito gli impianti negli anni precedenti. Di conseguenza, dagli anni ‘80 in poi gli investimenti nel settore della raffinazione si sono praticamente fermati e le compagnie petrolifere hanno iniziato una lenta e progressiva riduzione della loro presenza in questo settore. Il ruolo di raffinatore è stato lasciato a compagnie marginali, che hanno sviluppato una sorta di business indipendente, giocando sulle opportunità marginali offerte dai mercati (acquisto di carichi di greggio rimasti invenduti, i cosiddetti “distressed cargoes”, vendita dei prodotti sui mercati marginali,...) rese possibili dal fatto di non dover rifornire una stabile quota di mercato. I dati riportati in Tabella 1 mostrano che in dieci anni, dal 1990 al 2000, una serie di raffinatori indipendenti hanno triplicato la loro presenza nell’industria della raffinazione americana, rimpiazzando spazi occupato in precedenza dalle majors.

È da sottolineare che, in quel periodo storico, molte delle raffinerie furono acquistate a costi bassissimi, perché le majors si trovarono nella necessità di ridurre i costi e di concentrarsi sul core business della ricerca e produzione degli idrocarburi.

Poiché i prodotti ottenuti da queste raffinerie sono poi divenuti determinanti sui mercati marginali, questi operatori sono stati di fatto in grado di modularne l’evoluzione, “influenzando” l’evoluzione dei prezzi, tanto che nei mesi passati si è cominciato ad assistere ad interventi delle autorità di controllo per frenare gli abusi speculativi da parte dei soggetti che controllano tali mercati. Un processo simile è avvenuto anche nel sistema distribuzione dei prodotti petroliferi degli Stati Uniti. Nello stesso decennio, le stazioni di servizio delle majors sono diminuite a favore degli indipendenti (Tabella 2). Apparentemente questi cambiamenti avrebbero dovuto portare più concorrenza sui mercati e quindi maggiori benefici ai consumatori, ma in realtà la concomitante situazione di monopolio creatasi nel sistema di raffinazione, con una capacità insufficiente a coprire la domanda di prodotti finiti, ha fatto sì che i margini di questi operatori siano saliti alle stelle.

Negli ultimi cinque anni i margini di raffinazione, specialmente negli Usa, hanno toccato livelli impensabili fino a poco tempo fa. Durante il 2005, in alcuni momenti, il margine di raffinazione ha superato i 20 dollari a barile. E non si pensi che si tratta di un fenomeno americano. Da sempre, il mercato europeo è trainato dall’evoluzione del mercato dei prodotti americani, a causa della profonda e strutturale integrazione fra i sistemi di raffinazione delle due sponde dell’Atlantico. I fenomeni che si verificano sui mercati marginali negli Usa si riflettono immediatamente sulle quotazioni dei prodotti a Rotterdam e nel Mediterraneo (vedi figura). In più, si è verificato per la prima volta che l’aumento del prezzo della materia prima ha contemporaneamente provocato l’aumento dei margini di raffinazione. In passato, con l’esistenza di un’adeguata “spare capacity” degli impianti di raffinazione, ogni aumento del prezzo del greggio provocava viceversa una sofferenza dei margini di raffinazione. Oggi avviene l’esatto contrario: è il rialzo del prezzo dei prodotti finiti ad avviare la spirale di aumento del prezzo del greggio.

Ci troviamo quindi di fronte ad un vero e proprio nuovo cartello del mercato petrolifero mondiale, che sta influenzando in modo concreto l’evoluzione del prezzo del petrolio. Una ulteriore conferma del fenomeno ci è data dall’esame dello spettro dei prezzi dei singoli greggi commercializzati giornalmente sui mercati, ovvero dall’evoluzione dei cosiddetti “differenziali” di prezzo fra il Benchmark (il Brent) e i singoli greggi, che storicamente derivavano dalle differenze di qualità fra loro: un greggio più ricco in benzine, normalmente aveva un differenziale di prezzo positivo (prezzo più alto del Brent), mentre un greggio più povero aveva un differenziale negativo (prezzo più basso).
Oggi notiamo che i valori dei differenziali non rispondono più a queste logiche lineari, ma scaturiscono dai rapporti di forza che i raffinatori impongono ai venditori. Alcuni greggi sono arrivati a subire sconti di prezzo (differenziali negativi) fino e oltre i 20 dollari a barile. Ovvero, ogni qualvolta è necessaria una tecnologia più sofisticata per trasformare un greggio in prodotti finiti, il suo prezzo viene scontato in maniera drastica e al di fuori di ogni logica di costi associati. Vale la legge del monopolio dell’impianto.
Il messaggio è chiaro. I proprietari degli impianti di raffinazione e delle tecnologie di trasformazione vogliono appropriarsi interamente dei margini garantiti dalle difficoltà del mercato, senza riconoscere ai Paesi produttori una partecipazione a questi utili addizionali. Siamo, cioè, in una situazione diametralmente opposta a quella degli anni delle crisi petrolifere, quando i Paesi produttori dettavano i prezzi e le condizioni di mercato. Oggi siamo in un particolare “mercato del compratore”, ovvero un mercato del raffinatore marginale.

Tutto ciò sta avvenendo in modo quasi silenzioso, mentre la grande stampa e la politica continuano a lamentarsi delle politiche dei Paesi produttori (o addirittura del conflitto fra religioni) o della crescita di Cina e India. Dovremmo al contrario cominciare a guardare con occhio analitico e critico in casa nostra, se vogliamo individuare le ragioni delle crisi e le possibili soluzioni.

Stiamo continuando a pagare prezzi altissimi per l’energia, senza investire per il futuro. In questo settore, le liberalizzazioni apparenti possono causare danni gravi. Passare da un mercato controllato dalle grandi compagnie a un gruppo di indipendenti non è (e non è stato) di per sé garanzia di abbattimento dei prezzi. Forse lo è stato per i costi, ma i margini conseguenti sono rimasti ai controllori dei monopoli della raffinazione e distribuzione.

Il sistema energetico richiede investimenti continui e sfide tecnologiche, che vanno governati dalle istituzioni agli opportuni livelli sulla base di politiche energetiche consapevoli e strategicamente valide. Senza investimenti strutturali, coordinati a livello regionale (Europa, Stati Uniti,..), non c’è possibilità alcuna di venir fuori da queste difficoltà.
Questi elementi di analisi sono più o meno noti ai Paesi produttori, che hanno quindi iniziato la loro battaglia per riappropriarsi di parte dei margini che, indistintamente, vengono attribuiti alle compagnie petrolifere. È sotto gli occhi di tutti il livello della tensione raggiunta in Venezuela e più silenziosamente in altri Paesi Opec e non-Opec, per la revisione dei contratti di concessione mineraria.
Senza interventi decisi in questo settore rischiamo quindi di peggiorare ulteriormente la sicurezza e il costo degli approvvigionamenti energetici per il prossimo decennio.
 
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