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Il nucleare si poteva fare solo in un Paese serio Stampa E-mail
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di Giuseppe Gatti



Il referendum sul nucleare del 12 giugno è stato rapidamente archiviato (come gli altri del resto) con un implicito e generale riconoscimento che il suo esito era scontato in partenza. Effetto Fukushima, si può dire, ma personalmente sono convinto che anche senza Fukushima il risultato non sarebbe stato diverso e, aggiungo, da nuclearista convinto e impenitente non riesco neanche a dolermene, dal momento che al momento in Italia mancano assolutamente le basi per un ritorno al nucleare.

Ho già avuto occasione di dire che il nucleare si può fare solo in un Paese serio e vi sembra che l’Italia di oggi si possa qualificare come un Paese serio? Al di là delle battute, riprendere il cammino del nucleare avrebbe dovuto comportare in primo luogo ricostruire strutture, regole e competenze (che avevamo e che sono state disperse) per poter padroneggiare la materia, in qualche modo a prescindere dalla costruzione di centrali nucleari in Italia.

Il primo passo era ritornare nel club del nucleare, mettersi cioè in grado di partecipare attivamente alle attività di monitoraggio internazionali sullo stato dell’arte e al controllo delle centrali in esercizio (che sono soggette ad un continuo check-up), soprattutto per quelle che sono in prossimità dei nostri confini. In una logica meno provinciale di quella italiana, bisognerebbe rendersi conto che il nucleare lo abbiamo già: è quello francese, ma non meno quello svizzero, come quello sloveno-croato.

Secondo passo: chiarire i rapporti tra nucleare e mercato. Deve essere messo in chiaro che da parte dello Stato, quanto al nucleare, deve essere solo permessa la sua utilizzazione secondo regole e standard di sicurezza predefiniti, ma senza nessuna ulteriore ingerenza nello sviluppo di un’attività (la produzione di energia elettrica) che è libera. Non spetta quindi allo Stato dire quante centrali s’hanno da fare, con quale tecnologia, da parte di chi e nel caso con quali partner. [...]


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