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Che ne sarà del nucleare dopo Fukushima Stampa E-mail
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di Elio Smedile



Sono trascorsi ormai alcuni mesi dal catastrofico evento sismico giapponese e dal susseguente gravissimo incidente (parziale fusione del nocciolo) dei reattori di Fukushima, e può essere quindi opportuno tentare una prima valutazione di cosa è cambiato nel mondo circa la percezione - da parte delle istituzioni e dei cittadini - del rischio degli impianti nucleari.
L’impressione è che la reazione istintiva iniziale sia stata improntata prima all’incredulità e poi a una sorta di attesa salvifica della capacità del Paese nipponico di rispondere con efficacia e immediatezza all’evento catastrofico. Questa volta il sistema interessato non era - come per Chernobyl - un Paese tecnologicamente e strutturalmente abbastanza arretrato rispetto agli standard occidentali, ma il Giappone, modello di eccellenza per organizzazione, sviluppo tecnologico e professionalità di altissimo livello. Un Paese ideale quindi per gestire la complessità di una rete diffusa di impianti nucleari.

Con il passare delle settimane tuttavia, proprio l’organizzazione giapponese ha mostrato sorprendenti falle e la gravità dell’incidente nucleare è cresciuta; talché è sopravvenuto il pessimismo. In quei giorni il settimanale tedesco Der Spiegel titolava: Fukushima segna la fine dell’era nucleare. Il commissario europeo all’energia Günther Oettinger parlava di Apocalisse nucleare; il professor John Gofman, noto esperto della Commissione energia atomica degli Stati Uniti, affermava: L’industria nucleare ha iniziato una guerra contro l’umanità.
Qualcuno ha anche ricordato Sindrome cinese, uno stupendo film del 1979 (casualmente lo stesso anno dell’incidente di Three Mile Island) dove per la prima volta si affrontava il problema delle drammatiche conseguenze di una possibile fusione del nocciolo in una centrale nucleare della California.

Quello che si temeva (o si auspicava, a seconda delle diverse sensibilità) era che Fukushima potesse diventare il capolinea del nucleare, interrompendo quella ripresa dello sviluppo dell’energia atomica nel mondo enfaticamente ribattezzata Rinascimento nucleare.
La decisione del governo tedesco di eliminare gradualmente (entro il 2022) l’energia nucleare rafforzava tale tesi e prefigurava il diffondersi, per il cosiddetto effetto domino, di un progressivo abbandono del nucleare da parte dei Paesi ambientalmente più motivati. In realtà, ad oggi, ci sono stati ripensamenti circa la sicurezza degli impianti, qualche rallentamento nei programmi, il ridimensionamento parziale di taluni progetti di medio-lungo periodo, ma sostanzialmente solo la Svizzera ha seguito l’esempio germanico. In Europa anche quei Paesi come il Belgio, l’Olanda e la Svezia che a suo tempo avevano preso la decisione (poi sospesa) di uscire dal nucleare, hanno precisato che l’evento Fukushima non avrebbe modificato il proprio orientamento.

Perfino il Giappone (secondo dichiarazioni del ministro dell’Industria Banri Kaieda) ha confermato che il nucleare continuerà ad essere uno dei quattro pilastri della politica energetica del Paese. Un caso a parte, more solito, è il nostro Paese il cui governo, dopo aver annunciato con grande battage pubblicitario il ritorno al nucleare, ha dovuto prendere atto della volontà popolare sancita dal referendum abrogativo del 12 e 13 giugno e mettere una pietra (almeno per 1 o 2 quinquenni) sopra l’opzione nucleare. Molto chiara peraltro sembra la posizione delle istituzioni internazionali.
Mi limito a citare due convergenti prese di posizione di organizzazioni sovranazionali (Unione europea) e internazionali (Gruppo del G8). Nel Consiglio europeo del 24 e 25 marzo 2011 il Consiglio così si esprimeva:

Occorre riesaminare la sicurezza di tutte le centrali nucleari dell’UE sulla scorta di una valutazione esauriente e trasparente dei rischi e della sicurezza (prove di stress); la Commissione e il Gruppo dei regolatori europei in materia di sicurezza nucleare (ENSREG) definiranno la portata e le modalità di tali prove in un quadro coordinato, coinvolgendo pienamente gli Stati membri e avvalendosi delle competenze disponibili; il Consiglio europeo valuterà le conclusioni entro la fine del 2011 sulla base di una relazione della Commissione.

Nel Summit del G8 del 26 e 27 maggio 2011 è stata approvata la cosiddetta Dichiarazione di Deauville che, a proposito di nucleare, affermava:

We urge countries to complete periodic review of safety assessments and to carry out assessments at every stage of a nuclear installation’s lifetime, building on experience, and we reaffirm the high priority that we place on safety in the siting and design of new reactors, and the necessity of continuous improvement, learning from incidents and accidents everywhere. We recognise the important role of the IAEA for the enhancement of nuclear safety.

Si noti inoltre che lo scorso 7 giugno, nel corso di una riunione ministeriale promossa da Nicolas Sarkozy nella sua qualità di presidente di turno del Gruppo dei G20 e alla quale partecipavano rappresentanti di 30 Paesi produttori di energia nucleare, vi è stato un sostanziale accordo finalizzato a improve and lift our standard and cooperation on nuclear safety.
La chiave di lettura degli orientamenti della Comunità internazionale e dei governi nazionali porterebbe alla conclusione che la maggioranza dei Paesi che hanno in esercizio impianti nucleari non intendono invalidare l’opzione nucleare, ma vogliono un nucleare più sicuro. Di parere opposto sono le comunità e i singoli individui: dopo dopo l’incidente di Fukushima la maggioranza dei cittadini dei principali Paesi del mondo sembra (almeno per il momento) nettamente schierata contro il nucleare.


Un sondaggio realizzato nel mese di maggio da Asahi Shimbun nei sette Paesi del mondo dove è localizzato il maggior numero di centrali nucleari (Stati Uniti, Francia, Corea del Sud, Germania, Cina, Russia, Giappone)ha dato risultati per certi versi sorprendenti. Il Paese dove maggiore è il numero di cittadini favorevoli al nucleare sono gli Stati Uniti (55 per cento favorevoli, 31 per cento contrari), seguiti dalla Francia (51 e 44 per cento). All’incirca eguali sono gli oppositori e i favorevoli in Cina e Sud Corea. Nettamente in maggioranza gli oppositori in Germania (19 per cento favorevoli e 81 contrari), più contenuto il numero degli oppositori in Giappone (32 per cento a favore e 42 contro ) e in Russia (36 per cento favorevoli e 52 per cento contro).
Un analogo sondaggio condotto in Svezia da Dagens Nyether ha mostrato che il 36 per cento degli intervistati è a favore della chiusura delle centrali nucleari (erano il 15 per cento nel 2008) e solo il 21 per cento (erano il 48 nel 2008) sostiene lo sviluppo di nuova capacità nucleare.

In Gran Bretagna un sondaggio condotto da GFK NOP ha mostrato che dopo Fukushima i favorevoli al nucleare sono passati dal 35 al 12 per cento e i contrari dal 9 al 28 per cento. In Svizzera, tra il 5 e il 14 maggio, prima che il Governo decidesse di abbandonare progressivamente il nucleare, l’Istituto gfs. Bern ha condotto un sondaggio di opinione da cui è emerso che il 67 per cento dei cittadini elvetici era favorevole all’uscita dall’energia atomica.
Si noti infine che nel Paese più nucleare del mondo, la Francia, il Partito dei Verdi (molto più forte in termini di consenso popolare dell’analogo partito italiano) ha per la prima volta chiesto un referendum nazionale sull’energia nucleare e che nella quasi totalità dei Paesi tutte le associazioni e gruppi di difesa dell’ambiente si sono espressi per l’immediata cancellazione del nucleare.

Certamente l’emotività ha il suo peso nei giudizi sopra riportati, ma è improbabile che in tempi brevi tali giudizi vengano radicalmente cambiati. Tre incidenti in 30 anni (Three Mile Island, Chernobyl e Fukushima) per una tecnologia da tempo considerata per eccellenza la più sicura possibile (vedi ad esempio le stime del Rapporto Rasmussen del 1975) non possono non aver lasciato traccia indelebile nel comune sentire della gente.

Quali prospettive a questo punto? Dopo i safety test ci saranno altri Paesi (oltre a Germania e Svizzera) che decideranno (anche se con gradualità) l’abbandono del nucleare? E quali saranno, rebus sic stantibus, i potenziali nuovi entranti che confermeranno il proprio interesse a partecipare al club nucleare?



È certamente ancora prematuro trarre considerazioni conclusive. Sappiamo ancora troppo poco, infatti, della dinamica del disastro e degli effetti sanitari e ambientali delle emissioni di materiali radioattivi nell’area interessata, per cui è difficile per chiunque prevedere quale sarà la percezione dell’opzione nucleare nel prossimo futuro. Se prendiamo come riferimento il post-Chernobyl osserviamo che a partire dalla seconda metà degli anni ’80 (l’incidente di Chernobyl è avvenuto nel 1986) solo in tre Paesi (Cina, Messico e Romania) sono stati messi in esercizio nuovi reattorinucleari, mentre nei successivi 15 anni il trend di sviluppo del nucleare è rallentato fortemente.

Ciò che comunque sembra scontato è che l’espansione del nucleare - se ci sarà - sarà largamente centrata in Asia, dove peraltro è atteso il maggiore incremento dei consumi energetici. Questo fatto risulta evidente dal confronto tra la distribuzione per aree geografiche degli impianti in esercizio e degli impianti in costruzione.
Per quanto riguarda le new entry, un’analisi dettagliata è stata condotta dall’IAEA (International status and Prospects of nuclear power, marzo 2011) con il censimento di 65 Paesi che hanno dimostrato interesse ovvero hanno attivato azioni per lo sviluppo dell’energia nucleare quale soluzione ai problemi del cambiamento climatico, della volatilità dei prezzi dei prodotti petroliferi, dell’aumento della domanda di energia. Se osserviamo dove sono localizzati questi Paesi, sorprende soprattutto l’interesse che l’opzione nucleare riscuoterebbe in Africa, un continente dove vi è attualmente un solo impianto nucleare in esercizio (Sudafrica). Naturalmente l’indagine è stata eseguita prima del catastro- fico incidente giapponese e non è quindi dato sapere quanto cambierebbe se fosse replicata oggi.

Quel che viceversa è praticamente certo è lo spostamento del baricentro del nucleare futuro dall’asse Europa/America del Nord all’area Asia/Paci- fico. Va detto inoltre che, anche se solo la metà circa dei 65 Paesi censiti dall’IAEA concretizzassero il loro interesse per l’energia nucleare, il numero dei Paesi nuclearizzati potrebbe raddoppiare nelle prossime due decadi. Si noti che una parte significativa dei potenziali Paesi nuovi entranti è localizzata in aree segnate da notevole instabilità politica e ciò contribuisce ad alimentare i timori per la sicurezza globale. La diversione dei materiali nucleari dai reattori civili agli usi militari e il pericolo che armamenti nucleari cadano nelle mani di gruppi terroristici è una minaccia seria che incombe sull’umanità ed è per questo che il fenomeno è da tempo attentamente monitorato dagli esperti dell’IAEA.

 
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