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Rinnovabili, i duellanti depongano le armi Stampa E-mail
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di G. B. Zorzoli


Nel racconto di Conrad I duellanti, due ufficiali dell’esercito napoleonico si sfidano ripetutamente a duello per un tempo così lungo (molti anni) che alla fine non riescono più a ricordare con precisione le ragioni all’origine della contesa.
Ho il sospetto che una sorte analoga stia subendo lo sviluppo delle fonti rinnovabili in Italia. Si discute se l’onere sia eccessivo; se convenga puntare sulla generazione di calore invece che sulla produzione di elettricità; sul ruolo da far giocare all’efficienza energetica. Argomenti, tutti, meritevoli di approfondimento, se si vuole pervenire a una politica in materia che ottenga il massimo risultato col minore dispendio di risorse. Tuttavia, le argomentazioni addotte pro o contro determinate scelte sembrano aver dimenticato le motivazioni che hanno indotto l’Unione europea a puntare sull’ambizioso pacchetto clima/energia, noto come 20-20-20. Il 20 per cento di maggior efficienza e il 20 per cento di contributo delle rinnovabili ai consumi lordi di energia sono infatti obiettivi ancillari al terzo risultato, la riduzione del 20 per cento delle emissioni di CO2. In altri termini, una maggiore efficienza energetica e un maggiore contributo alla generazione di energia da parte delle fonti rinnovabili sono semplicemente gli strumenti prescelti per attenuare il riscaldamento globale provocato dalla crescita delle emissioni di CO2.

Poiché i meccanismi di mercato non sono in grado di trasmettere segnali sufficienti a innescare sul breve periodo la crescita in termini di efficienza e di rinnovabili necessaria per evitare sul lungo periodo un aumento intollerabile della temperatura media del globo, la Commissione europea è dovuta ricorrere a una pianificazione vincolante, i cui obiettivi per gli Stati membri, soggetti a verifiche intermedie biennali, sono contenuti nella Direttiva 2009/28/CE, che ha altresì richiesto a ogni Paese la presentazione entro il 30 giugno 2010 di un Piano di Azione Nazionale (PAN) dove dovevano essere dettagliati i percorsi per raggiungere tali obiettivi e le misure adottate per realizzarli.

Che si sia dovuto ricorrere allo strumento della pianificazione, scelta controcorrente rispetto alle politiche di liberalizzazione avviate nella seconda metà degli anni ’90 con le Direttive 96/92/CE per l’energia elettrica e 98/30/ CE per il gas, la dice lunga sulla predominanza che l’Unione europea attribuisce alla salvaguardia del clima rispetto a un cardine della politica comunitaria qual è il libero mercato; in questo del tutto coerente con le indicazioni sempre più precise e pressanti contenute nei periodici rapporti dell’IPCC.

Questa genesi, i duellanti sembrano averla dimenticata, altrimenti non si spiegherebbe la ratio di argomentazioni che con inalterata frequenza vanno per la maggiore perfino all’interno di documenti prodotti da autorevoli istituzioni.
Prendiamo il caso, spesso portato ad esempio, delle biomasse. Che le si bruci direttamente in una caldaia o le si trasformi prima in un altro combustibile (ad esempio biogas o syngas), utilizzarle per la sola generazione elettrica rimarrebbe una sciocchezza anche se fosse diverso il metodo scelto da Bruxelles per valutare il contributo al raggiungimento degli obiettivi da parte delle singole tecnologie.

Lo è sotto il profilo economico, perché una volta terminato il periodo di valenza degli incentivi, senza la vendita anche di calore un impianto alimentato da biomasse di norma cessa di essere redditizio. Fanno eccezione soprattutto gli impianti di grande taglia, che utilizzano biomassa importata da Paesi terzi, che una legislazione accorta dovrebbe penalizzare in quanto l’effettivo contributo in termini di ridotta emissione di gas serra è per lo meno dubbio, se non addirittura negativo. Impiegare biomassa per la sola produzione di calore certamente produce risultati migliori in termini di raggiungimento degli obiettivi al 2020, ma rinunciare a un suo utilizzo in impianti cogenerativi rappresenta uno spreco in termini di minori emissioni. D’altronde, se si impiegano biomasse locali, in pratica la taglia degli impianti è sempre sufficientemente contenuta da rendere abbastanza agevole l’identificazione di utenze termiche alimentabili col calore utile derivante da un assetto cogenerativo.

Se invece di limitarci ad osservare il dito che indica quanti tep vengono riconosciuti per una specifica realizzazione, sollevassimo lo sguardo alle ragioni di fondo per cui l’Europa si è impegnata ad aumentare il contributo delle rinnovabili, forse smetteremmo di ripetere stancamente qualche luogo comune. Infatti, l’Italia deve impegnarsi molto di più rispetto al passato nell’installazione di impianti e sistemi per la generazione termica con fonti rinnovabili perché:

a) il loro contributo è stato finora di gran lunga inferiore alle loro potenzialità, a causa di scelte politiche miopi in termini non solo di incentivazione, ma anche di altre misure (si pensi all’esigenza prioritaria di formare professionalmente gli installatori) che, se vogliamo realizzare gli incrementi previsti rispetto al 2008 (Figura 1), rendono essenziale la rapida emanazione dei decreti attuativi delle meritorie innovazioni in proposito contenute nel Decreto legislativo 28/2011;
b) le loro incentivazioni comportano oggi un onere più contenuto;
c) una grandissima parte della componentistica è prodotta in Italia;
d) senza l’apporto di tutte le opzioni tecnologiche disponibili non sarebbe raggiungibile l’obiettivo del 17 per cento di consumo da rinnovabili sui consumi totali di energia nel 2020.

Di motivazioni a favore della generazione termica ne esistono dunque a sufficienza senza bisogno, per sostenerne l’uso, di sciorinare luoghi comuni sulla generazione elettrica con fonti rinnovabili. Fermo restando che, nel caso delle biomasse, efficienza economica e ambientale concorrono nel privilegiare la cogenerazione, non può nemmeno essere taciuto che la produzione elettrica per via eolica e fotovoltaica, andando a sostituire quella di impianti a combustibili fossili – perfino nel caso italiano caratterizzato dall’efficienza di trasformazione più elevata in Europa (Figura 2) - ha come effetto una riduzione delle emissioni poco meno del doppio del quantitativo derivante dalla produzione termica con fonti rinnovabili.

In quest’ottica, poiché nel trasporto su strada l’efficienza di trasformazione è ancora più bassa, l’impegno in assoluto maggiore andrebbe dedicato alla promozione dell’impiego di biocarburanti e, in prospettiva, di veicoli elettrici, in quanto anche con l’attuale mix produttivo di elettricità si realizzerebbero rilevanti riduzioni nelle emissioni di CO2 (oltre a ridurre l’inquinamento nei centri urbani). Viceversa, questa terza gamba della pacchetto clima/energia è quasi sempre assente dalle analisi e dai dibattiti, a riprova del diffuso oblio calato sulle motivazioni su cui si fonda il pacchetto.
Se non vogliamo limitarci a una interpretazione meramente burocratica degli obiettivi per l’Italia fissati dalla Direttiva 2009/28/CE, una politica equilibrata dovrebbe quindi contemperare tre diverse esigenze:
1. massimizzare la riduzione delle emissioni di CO2;
2. puntare con decisione su tutte le opzioni tecnologiche praticabili;
3. contenere entro limiti accettabili per il consumatore gli oneri delle incentivazioni.

Il PAN aveva prospettato obiettivi per la maggior parte in grado di ottemperare a questi tre requisiti. Uniche eccezioni, la sottostima dei contributi che realisticamente possono dare il fotovoltaico e l’eolico. Clamorosa per il primo (8.000 MW previsti per il 2020 contro i 23.000 MW desumibili nel 2011 dalle indicazioni del Quarto Conto Energia), significativa per il secondo (16.000 MW realisticamente installabili contro 12.680 MW indicati dal PAN).
Sotto questo profilo il Decreto 28/2011 ha complicato le cose, anche se un giudizio complessivo sarà fattibile solo dopo l’emanazione di tutti i decreti attuativi che, per uscire dall’attuale clima di incertezza, sarebbe opportuno definire in tempi molto contenuti.

Se i duellanti - governo, altre istituzioni, associazioni di categoria, imprese - si sforzassero di tenere sempre presente l’obiettivo di fondo (massima riduzione dei gas climalteranti), non solo eviteremmo le guerre di religione che di recente non sono affatto mancate, ma anche il frequente riproporsi di burocratiche preoccupazioni per possibili superamenti degli obiettivi indicati nel PAN, vissuti come vincoli e non come opportunità non solo di miglioramento della situazione ambientale, ma anche di innovazione, quindi di sviluppo economico, produttivo, sociale.
È questa la strategia prescelta e portata avanti con determinazione dalla Germania, Paese che siamo sempre pronti a citare come modello da seguire, salvo dimenticarcene quando si tratta della promozione delle fonti rinnovabili di energia. Paese dove anche gli incentivi sono correttamente classificati fra gli investimenti. Mi si dirà che da noi non sono mancati utilizzi dei meccanismi incentivanti per speculazioni e abusi. È vero, ma non in misura maggiore di quanto quotidianamente si verifica in altri settori della nostra vita pubblica e privata. Se in passato li avessimo denunciati con lo stesso vigore e la medesima pertinacia adottati oggi per le rinnovabili, ma soprattutto efficacemente contrastati, probabilmente oggi il loro peso sarebbe trascurabile anche nelle attività concernenti le rinnovabili.

 
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