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IL GIORNALIERO - La (lentissima) corsa americana alla riduzione delle fonti fossili Stampa E-mail

3 febbraio 2011 - Sulla tavolozza energetica degli States, il verde è ancora oggi uno sbafo di colore secondario. L’ultima edizione della Monthly Energy Review (MER), edita dall’Energy Information Administration, ha infatti aggiornato le stime (a ottobre 2010) dei consumi di energia primaria negli Stati Uniti. Il petrolio si conferma come la fonte regina, con uno share pari al 40 per cento. Gas naturale e carbone seguono a ruota con, rispettivamente, il 22 e il 20 per cento di quota mercato. Nel complesso le fonti fossili sono quindi oltre la barriera dei quattro quinti. La fetta restante della torta è equamente divisa tra fonti rinnovabili e nucleare (il cui ruolo è forzato dalla fisica al solo settore elettrico, mentre le renewable possono esprimersi efficacemente anche nel comparto trasporti e climatizzazione).
Sarebbe comunque ingeneroso liquidare questi dati con troppa severità, sottolineando solo la permanente dominanza delle fonti tradizionali. In questi ultimi dieci anni gli Usa di strada ne hanno fatta parecchia, considerando soprattutto la tipologia del Paese (e la rigidità dei suoi consumi) o l’intervento della recente crisi che ha scompaginato le carte.
Ancora nel 2000 petrolio, gas naturale e carbone sfioravano l’86 per cento dei consumi energetici globali interni. Il nucleare era appena al di sotto dell’8 per cento e le rinnovabili si posizionavano in zona retroguardia (6 per cento). Cinque anni dopo la situazione era del tutto invariata. Le fonti dure sempre abbondantemente al di sopra dell’85 per cento, il nucleare posizionato sulla linea di galleggiamento dell’8 per cento, le rinnovabili appena al di sopra del 6 per cento.
La corsa alla decarbonizzazione è iniziata nel periodo immediatamente successivo. In meno di cinque anni - tenendo conto anche dell’effetto recessione - alle fonti fossili è stato strappato circa un punto percentuale di quota mercato l’anno. E non è davvero poca cosa.

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