di G. B. Zorzoli
Ogni tanto non guasta distogliere lo sguardo dalle quotidiane vicende del mondo dell’energia e cercare di immaginare futuri diversi dal presente, ma plausibili. In questa domenica di settembre dedicata a scrivere il mio contributo a Nuova Energia l’insoddisfazione per il già detto, per il già commentato, concorre a spingermi su poco frequentati sentieri, dove è sempre in agguato il rischio dell’utopia. D’altronde secondo Musil l’utopia è l’esperimento in cui si osservano la probabile trasformazione di un elemento e gli effetti che essa produrrebbe in quel complicato fenomeno che chiamiamo vita.
L’ITALICO STELLONE
È già accaduto con le banche. Per anni ci siamo detti e ridetti che le nostre non erano all’altezza dei tempi, troppo timide nel concedere crediti, meno propense che altrove all’utilizzo dei derivati finanziari, con la funzione di retailer ancora dominante rispetto al merchant. Poi è arrivata la crisi e ci siamo ritrovati con un sistema finanziario meno in affanno rispetto a quelli che così a lungo avevamo, invidiosi, ammirato.
E se qualcosa di analogo si verificasse per il nostro mix di produzione elettrica? In Italia non esiste addetto ai lavori che, prima di esprimere il suo punto di vista, non si senta obbligato alla seguente premessa: il nostro mix produttivo rappresenta un’anomalia rispetto al resto d’Europa (i più audaci si allargano fino al resto del mondo) per l’eccessivo ricorso al gas naturale come fonte primaria, causa determinante di un prezzo dell’elettricità più elevato, che penalizza le nostre imprese nei confronti della concorrenza internazionale, eccetera, eccetera, eccetera. Tutto vero, come lo erano i giudizi sul nostro sistema bancario. E se?
A più riprese su questa rivista (ma anche altrove) ho segnalato i potenziali cambiamenti negli odierni equilibri energetici che potrebbero essere prodotti dai gas non convenzionali. Visto che qualcuno ha liquidato questi avvertimenti come esagerazioni, stavolta scelgo di farmi scudo con personalità al di sopra di ogni sospetto, che hanno affrontato l’argomento al recente World Energy Congress di Montreal.
Daniel Yergin, presidente del Cambridge Energy Research Associates, uno dei più prestigiosi think tank energetici, ha parlato di shale gale, di un vento impetuoso prodotto dallo sfruttamento del gas naturale contenuto in formazioni geologiche argillose, definito la più grande innovazione di questo primo scorcio del XXI secolo.
Gli ha fatto eco Fatih Birol, chief economist all’International Energy Agency, secondo cui il boom di gas non convenzionale, oggi sostanzialmente concentrato nel Nord America, potrebbe estendersi all’Europa - per la quale ha sottolineato i promettenti segnali che vengono dalla Polonia - e all’Asia (all’Africa, aggiungo io, se saranno confermate le prime indicazioni sulle potenzialità delle aree su cui si indaga in Tunisia). In tal caso the glut is likely to put pressure on energy prices.
Esiste insomma la concreta possibilità che in un futuro nemmeno tanto lontano anche in Europa i prezzi del gas naturale scendano ai livelli di quelli americani. Se così fosse, il costo del MWh prodotto dai cicli combinati potrebbe posizionarsi fra 40 e 45 euro. Non solo il sistema economico del nostro Paese acquisirebbe un vantaggio concorrenziale, ma si capovolgerebbe l’attuale rapporto fra import ed export di energia elettrica, con la sovracapacità produttiva dei nostri cicli combinati utilizzata per vendere energia all’estero. La cicala che vince la lotteria e frega la formica. Ovvero, dell’italico stellone.
MERCATO VO CERCANDO
L’anno prossimo la prima direttiva europea sul mercato unico dell’elettricità compirà quindici anni, ma quantum mutatus ab illo. Le defatiganti trattative che hanno portato a una terza direttiva alquanto minimalista rispetto alle attese, non lasciano soverchi dubbi sul tendenziale rallentamento della spinta propulsiva degli anni ‘90, quando la parola d’ordine mercato non connotava più soltanto uno strumento atto a realizzare una maggiore efficienza, come tutti gli strumenti da maneggiare con cautela, ma nelle versioni più accese (ciò nonostante con elevati indici di ascolto) aveva trasfigurato il concetto trasportandolo nell’empireo dell’ideologia. Tornano a pesare le difese degli interessi nazionali, che quasi sempre mascherano la pura e semplice conservazione dello status quo, oggigiorno rafforzate da una crisi mondiale provocata appunto da un mercato privo delle regole necessarie a evitarne i deragliamenti.
Se i problemi fossero solo questi, basterebbe seguire il consiglio di Eduardo: adda passà ‘a nuttata, dopo di che sarà possibile proseguire verso l’obiettivo di un mercato europeo sempre più competitivo e integrato. Non è così. Già oggi sono presenti nel sistema elettrico altri fattori che mettono in discussione la sopravvivenza stessa del mercato che, come sottolinea il punto 23 della premessa alla Direttiva 96/92/CE, si basa innanzi tutto sull’apertura del mercato della produzione di energia. Nel caso di questo scenario il futuro è almeno in parte già incominciato, prima con gli obiettivi fissati a livello europeo per rispettare gli impegni assunti col Protocollo di Kyoto, successivamente con il varo del pacchetto energia/ambiente.
Nel caso italiano, per raggiungere gli obiettivi concordati a Bruxelles, il Piano di Azione Nazionale del luglio scorso stabilisce che nel 2020 il 26 per cento dei consumi finali di energia elettrica sarà soddisfatto facendo uso di fonti rinnovabili. È convinzione di molti (anche mia) che, strada facendo, per realizzare il target complessivo del 17 per cento dei consumi energetici finali coperto da rinnovabili questa percentuale dovrà essere innalzata, portandola fra il 30 e il 35 per cento. In ogni caso, fra poco più di un quarto e circa un terzo della generazione elettrica nel 2020 dovrà venire da fonti rinnovabili, una scelta che contraddice l’obiettivo, assunto nel 1996 e ribadito dalle direttive del 2003 e del 2009, di lasciare alle società produttrici libertà di scegliere le tecnologie impiantistiche considerate più appropriate.
Intendiamoci, questa riconversione alla logica dei piani con obiettivi cogenti ha solidissime e ben note motivazioni. Lascerebbe comunque abbastanza spazio al mercato in quasi tutti i Paesi, ma non in Italia, dove il recente, radicale rinnovo del parco produttivo riduce, addirittura può annullare, tale spazio. Tuttavia, il rilancio o il tentativo di rilancio del nucleare, sommandosi ai piani nazionali per le rinnovabili, di fatto irrigidirebbe ulteriormente le opzioni per il futuro. L’ho scritto e detto tante di quelle volte negli ultimi quindici anni da non avere bisogno di ripetere le ragioni: il nucleare è difficilmente compatibile con le dinamiche del mercato elettrico a causa dei meccanismi di finanziamento ivi operanti. Oggi ne abbiamo la riprova.
La decisione di costruire nuovi impianti nucleari in Finlandia non è stata scelta autonoma dei produttori, ma è nata da un voto del Parlamento, cui hanno fatto seguito la decisione di porre a carico del bilancio dello Stato gli oneri relativi alla chiusura del ciclo del combustibile e la costituzione di una società mista produttori-consumatori per garantire la certezza dell’acquisto a lungo termine dell’energia prodotta da Olkiluoto-3 a prezzi preventivamente concordati (tipo di accordo favorito anche in Italia da un articolo della legge 99/09).
La proposta dell’Autorità per l’energia per la copertura dei rischi finanziari di impianti aventi le caratteristiche di quelli nucleari, che dovrebbero trovare una copertura di ultima istanza nelle bollette dei consumatori, va nella medesima direzione. Anche in Francia, dove pure permane forte il ruolo dello Stato pianificatore ed è consolidata la presenza del nucleare, quel tanto di apertura di mercato che si è realizzata impone nuovi interventi di supporto. Per rendersene conto, basta leggere il rapporto a Sarkozy dell’ex-presidente di EdF Roussely, dove ad esempio si sottolinea la necessità di aumentare le tariffe elettriche per favorire lo sviluppo del nucleare, proposta immediatamente recepita dal presidente francese. Se così andasse, per ritrovare tracce di mercato bisognerebbe ricorrere a Diogene e alla sua mitica lanterna.
FARE A MENO DEL PETROLIO
E se del petrolio non sapessimo più che farcene? Oggi come oggi la domanda suona bizzarra. Un po’ meno se partiamo dalla considerazione che attualmente più del 70 per cento del barile è convertito in prodotti utilizzati per il trasporto. I veicoli ibridi sono già lì, ma lo sviluppo delle batterie a ioni di litio in tempi non cosmici potrebbe spianare la strada agli ibridi plug-in e ai veicoli puramente elettrici, ricaricati con energia per la massima parte prodotta con fonti primarie diverse dal petrolio.
Alle auto vanno aggiunte le moto e le biciclette a propulsione elettrica: nel 2008 ne sono state costruite 22 milioni e nel 2015 dovrebbero rappresentare un terzo di tutta la produzione mondiale (in Cina circolano già 120 milioni di biciclette elettriche). Secondo uno studio della McKinsey, nel 2020 potranno essere venduti fra sei e otto milioni di veicoli elettrici, situazione che would change whole sectors dramatically. Il mondo del petrolio, soprattutto.
Consideriamo l’apporto che può venire dai biocarburanti: un 15 per cento del futuro fabbisogno mondiale sembra una meta ragionevole. Mettiamo nel conto anche l’uso diretto del metano, che diventerebbe molto più conveniente della benzina e del gasolio se si verificasse il boom dei gas non convenzionali. Difficile dire fin dove si può arrivare su questa strada. Secondo il molto citato rapporto prodotto dalla McKinsey per conto dell’European Climate Foundation, nel 2050 di combustibili fossili non ce ne sarebbe più bisogno.
Si tratta di previsioni certamente ottimistiche - basti pensare all’apporto dell’idrogeno, naturalmente prodotto da fonti rinnovabili, ma sopratutto al peso eccessivo attribuito ai biocarburanti! In questa direzione, tuttavia, di strada se ne può percorrere molta. Insomma, il picco nella produzione di petrolio potrebbe essere anticipato dal picco nella sua domanda: una prospettiva a cui non siamo abituati a pensare.
CONCLUSIONI CHE NON CONCLUDONO
Proiettarsi nel futuro estrapolando i trend passati è operazione semplice, ma di ridotta utilità perfino sui tempi brevi. Se nel 2006 avessi estrapolato qualsiasi serie di dati fra il 2001 e il 2005 per prevedere il medesimo dato nel 2009, avrei preso un abbaglio molto grave con conseguenze altrettanto gravi se, ad esempio, avessi utilizzato le mie conclusioni per decidere un investimento.
Costruire scenari se non altro obbliga a elaborare risposte al quesito what if?
In questi casi il rischio può insorgere quando li si quantifica mediante programmi come Primes o Markal. I numeri che fuoriescono dal computer, soprattutto se ordinati in grafici multicolori, hanno un loro fascino, cui non è così agevole resistere. E nessuno ha ancora inventato un vaccino che ci protegga adeguatamente.
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