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Biocarburanti, la seconda generazione cresce Stampa E-mail

di Felice Cervone e Simone Ferrari - Dipartimento Biologia e Biotecnologie Charles Darwin
Università di Roma La Sapienza



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Biofuels are an attractive alternative to fossil fuels,
but currently ethanol and biodiesel are obtained
from food crops, like corn and sugarcane, arising concerns about the competition for land use
between energy and food production.
Ethanol obtained from agricultural wastes and dedicated energy crops will represent the second generation of biofuels.
This plant biomass is mainly represented by cell
walls, which is difficult to convert into simple sugars (saccharification) to be subsequently converted
by microorganisms into ethanol. Cell walls are made
of cellulose fibers embedded in a matrix of complex polysaccharides (hemicellulose, pectin) and lignin.
We have demonstrated that the degree of
methylation of pectin affects the exposure
of cellulose to enzymes and consequently the
process of saccharification.
Reduction of de-methylesterified pectin in different plants through the expression of a fungal polygalacturonase (PG) or an inhibitor of pectin methylesterase (PMEI) increases the efficiency
of enzymatic hydrolysis. The improved enzymatic saccharification efficiency observed in transformed plants could reduce the need for acid pretreatments
and enzymes and reduce the costs associated
to biofuel production
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Per la maggior parte della propria storia l’uomo ha utilizzato le piante come principale fonte di energia, ma con la rivoluzione industriale i combustibili fossili hanno rapidamente preso il sopravvento. Solo da pochi anni l’utilizzo di materiale vegetale non fossile come alternativa al petrolio viene preso seriamente in considerazione, in particolare per la produzione di carburanti liquidi.
Un vantaggio dell’uso delle biomasse derivante dalle piante come fonte di energia è che queste sono spesso disponibili a livello locale e la loro conversione non richiede investimenti di ingenti capitali, costituendo al contempo un’opportunità di lavoro e sviluppo delle aree rurali. Nonostante ciò, in Italia la biomassa vegetale copre attualmente solamente il 3 per cento del fabbisogno energetico nazionale.

Lo scarso utilizzo dei carburanti di origine vegetale nel nostro Paese è in netto contrasto con la tendenza in atto in altre nazioni; ad esempio, nel 2006 gli Stati Uniti hanno annunciato l’obiettivo di ridurre del 30 per cento, entro il 2030, la dipendenza dal petrolio di provenienza straniera tramite l’uso di carburanti liquidi derivati da biomasse.
Il principale biocarburante liquido prodotto attualmente è l’etanolo, per lo più ottenuto dal mais e dalla canna da zucchero. Per tale motivo la sua produzione è potenzialmente in competizione con le colture a scopo alimentare.

La diversione dell’impiego del mais dall’alimentazione alla produzione di bioetanolo ha recentemente causato un innalzamento del suo prezzo, con un forte impatto sui costi degli allevamenti animali. Il contrasto fra produzione a scopo alimentare e a scopo energetico potrebbe essere limitato con lo sviluppo di nuove colture specificamente dedicate alla produzione di biomassa per la conversione in carburanti, le cosiddette energy crop. Queste possono essere sia piante erbacee annuali come il sorgo, sia perenni come il miscanto e il panico, sia arboree come ad esempio il pioppo. L’uso delle energy crop richiede, però, che grandi superfici arabili siano convertite alla loro coltivazione, sottraendo terra alle colture alimentari e influenzando negativamente l’economia delle aree rurali, oltre che gli ecosistemi agricoli e il paesaggio.

In Italia, Paese in cui la superficie arabile è scarsa e le produzioni agricole hanno un elevato valore aggiunto, l’applicazione su larga scala delle colture energetiche appare perciò poco praticabile. In tale contesto l’utilizzo dei residui colturali, cioè tutto il materiale vegetale che rimane inutilizzato dopo il raccolto, potrebbe essere una soluzione adottabile anche nel nostro Paese.
La superficie dedicata alle colture alimentari in Italia avrebbe una potenzialità produttiva di biomassa residua sufficiente a coprire l’8 per cento del fabbisogno nazionale di combustibili liquidi, facendo a meno di coltivare energy crop e senza una sostanziale alterazione del paesaggio agricolo.
L’utilizzo della biomassa residua, così come quella ottenuta da colture dedicate, su larga scala è ancora limitato da problemi tecnici. La parti delle piante non utilizzate a scopo alimentare sono costituite principalmente dalla parete che circonda tutte le cellule vegetali. Questa struttura, che conferisce rigidità ai tessuti della pianta, si è evoluta per resistere alle sollecitazioni meccaniche come all’attacco di animali erbivori e di microrganismi patogeni. I suoi costituenti sono complessi polimeri di zuccheri fra cui la cellulosa, che forma fibre estremamente resistenti alla tensione e che permettono alle piante di mantenere il loro caratteristico turgore. In molti tessuti a tali polisaccaridi si aggiunge la presenza della lignina, una sostanza impermeabile e resistente alla degradazione. Per tale motivo, spesso si parla di materiale ligno-cellulosico quando ci si riferisce alle porzioni delle piante che non vengono utilizzate per l’alimentazione, siano essi residui colturali (ad esempio, gli steli delle piante coltivate che rimangono in campo dopo il raccolto), specie arboree o colture dedicate alla produzione di biomassa.

La difficoltà collegata allo sviluppo di biocarburanti cosiddetti di seconda generazione, ottenuti cioè da ligno-cellulosa invece che da saccarosio e amido, risiede attualmente nella conversione dei polisaccaridi della parete cellulare in zuccheri semplici, un processo che si chiama saccarificazione.
Gli zuccheri semplici ottenuti dal processo di saccarificazione possono poi essere usati da microrganismi per la fermentazione alcolica o per la trasformazione in altri tipi di prodotti industriali. La cellulosa è il substrato preferenziale per la produzione di etanolo, sia perché è una componente abbondante della biomassa, sia perché il glucosio che deriva dalla sua saccarificazione è facilmente convertito in etanolo da molti microrganismi.
Un fattore che limita la degradabilità della cellulosa è la presenza, nella parete cellulare, di una matrice eterogenea di polisaccaridi, proteine e lignina, che la intrappola e la rende resistente ai trattamenti enzimatici. Per tale motivo le biomasse ligno-cellulosiche hanno bisogno di pretrattamenti con sostanze acide, perossidi e/o ammoniaca, spesso accoppiati anche a processi di disgregazione meccanica, per renderle attaccabili dagli enzimi usati nella saccarificazione. Tali pre-trattamenti hanno un costo elevato e sono spesso inquinanti. Se si aggiunge l’alto costo degli enzimi utilizzati per convertire in zuccheri semplici i polisaccaridi di parete, e in particolare la cellulosa, si comprende perché l’utilizzo commerciale dell’etanolo di origine lignocellulosica sia oggi assai limitato.

Negli ultimi anni alcuni biologi vegetali hanno rivolto la propria attenzione all’identificazione dei fattori che limitano la saccarificazione delle piante e allo sviluppo di nuove tecnologie per la produzione a basso costo di biocarburanti. Ad esempio, l’ingegneria genetica permette oggi di esprimere direttamente nelle piante gli enzimi utilizzati per la saccarificazione, con potenziale abbattimento dei costi associati all’utilizzo di bioreattori su larga scala. Inoltre, l’ingegneria genetica può contribuire a migliorare la digeribilità della biomassa mediante modifica della composizione e della struttura della parete vegetale. In questo senso si sono mossi alcuni ricercatori che hanno cercato di ridurre il contenuto di lignina delle pareti cellulari per aumentare la degradabilità dei tessuti vegetali e ridurre i pre-trattamenti necessari alla saccarificazione della biomassa.
Un approccio che ha dato risultati incoraggianti è stato quello adottato dal gruppo di ricerca di Richard Dixon, della Samuel Roberts Noble Foundation, negli Stati Uniti.
Questi ricercatori hanno ridotto l’espressione degli enzimi coinvolti nella biosintesi della lignina in piante transgeniche di erba medica, che conseguentemente mostrano una diminuzione del contenuto di lignina con aumento dell’efficienza di saccarificazione enzimatica e una ridotta necessità di pre-trattamenti termochimici. Purtroppo alcune di queste piante presentano anche una riduzione della biomassa totale ed è presumibile che siano anche meno resistenti nei confronti di agenti patogeni e animali fitofagi, dato che la lignina e i suoi precursori hanno un ruolo di difesa. È necessario perciò studiare in campo l’efficienza di queste piante, prima di poterle considerare come possibile fonte di biomassa per la produzione di etanolo.

La pectina è un altro componente della parete, particolarmente critico per l’accessibilità ad enzimi degradativi, sopratutto nelle dicotiledoni, che comprendono molte piante rilevanti per l’agricoltura come patata, pomodoro, leguminose e alberi da frutto.
La pectina, un polisaccaride con struttura estremamente complessa, forma una sorta di gel adesivo che circonda gli altri componenti della parete e tiene unite tra loro le cellule di un tessuto. Per tale motivo molti funghi e batteri che infettano le piante producono grandi quantità di enzimi che degradano la pectina prima di poter accedere alla componente cellulosica e convertirla in glucosio. È noto che l’associazione tra le molecole di pectina influenza la plasticità delle pareti e che gli zuccheri acidi che la compongono formano, in presenza di calcio, legami crociati che irrigidiscono la parete cellulare. Modificazioni chimiche che riducono l’acidità della pectina, come la metilazione e l’acetilazione, ne riducono perciò la capacità di legare il calcio e quindi di formare legami crociati.

La quantità di pectina presente nelle piante e il suo grado di metilazione possono influenzare la capacità di enzimi idrolitici come le cellulasi di accedere ai rispettivi substrati e, su questa base, il nostro gruppo di ricerca ha recentemente studiato la possibilità di migliorare la saccarificazione del tessuto vegetale attraverso l’espressione in pianta di proteine che alterano la pectina.
A tale scopo abbiamo trasferito in piante di Arabidopsis thaliana (una piccola pianta simile alla senape, utilizzata come specie modello negli studi di biologia vegetale) e di tabacco un gene di un fungo che codifica per una poligalatturonasi, un enzima che degrada la pectina non metilata. Tali piante sono più suscettibili alla degradazione da parte di enzimi che idrolizzano la cellulosa, e conseguentemente rilasciano dal tessuto vegetale una maggiore quantità di zuccheri fermentabili anche in assenza di pre-trattamenti.
Ne consegue che il contenuto in pectina de-metilata può avere un impatto sulla resa in zuccheri fermentabili e quindi sulla produzione di biocarburanti. Sfortunatamente, l’espressione di alti livelli di poligalatturonasi nella parete cellulare non sembra essere applicabile direttamente, visto che le piante transgeniche con maggiori livelli di espressione dell’enzima fungino presentano anche una drammatica riduzione della crescita.

Gli studi che sono tuttora in corso mirano a sviluppare piante che esprimano gli stessi enzimi ma in maniera controllata, in modo da degradare la pectina solo al termine del ciclo vitale. Se tali studi daranno risultati positivi, in un futuro non troppo lontano potremo avere colture che crescono normalmente ma che, dopo il raccolto, andranno incontro ad una auto-digestione che permetterà di utilizzare le parti di scarto della pianta per produrre carburanti.
Un approccio alternativo per modificare la frazione di pectina non metilata nella parete cellulare senza avere effetti negativi sulla crescita si avvale di una proteina normalmente presente nei tessuti delle piante, l’inibitore delle pectina metilesterasi (PMEI).
La PMEI è in grado di ridurre l’attività delle pectina metilesterasi, enzimi vegetali che normalmente rimuovono i gruppi metilici dalla pectina, rendendola capace di formare legami crociati. Come nel caso delle piante trasformate con la poligalatturonasi, tessuti di piante transgeniche di Arabidopsis e frumento che esprimono elevate quantità di PMEI sono risultati più degradabili da parte delle cellulasi e non richiedono pretrattamenti. Un vantaggio delle piante trasformate con PMEI è che esse presentano anche un aumento della biomassa vegetativa e sono più resistenti alle infezioni fungine. Pertanto lo sviluppo di colture ingegnerizzate con tale proteina è un obiettivo realizzabile in breve tempo. L’utilizzo di proteine che modificano la pectina per migliorare il processo di saccarificazione di biomasse vegetali e di produzione dei biocarburanti è l’oggetto di un brevetto internazionale depositato dall’Università La Sapienza, e ci si aspetta che presto tale tecnologia venga sperimentata a livello industriale.

Nel 2009 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione (2050: The future begins today – Recommendations for the EU’s future integrated policy on climate change) in cui sono indicate una serie di misure mirate a ridurre l’emissione di gas serra del 25-40 per cento entro il 2020, e una riduzione di almeno l’80 per cento entro il 2050. La risoluzione chiede agli Stati membri di investire in ricerca sui biocarburanti, e ci si aspetta che nuove scoperte nel campo della biologia vegetale di base possano contribuire a sviluppare nuove tecnologie per la produzione di carburanti di origine vegetale a basso costo e con un impatto minimo sull’ambiente.

 
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