di Ugo Farinelli
Vent’anni fa, o giù di lì, qualcuno fece un esperimento piuttosto interessante. Preparò un elenco di un centinaio di nuove tecnologie in tutti i campi, tutte plausibili e immaginabili ma non ancora in fase di sviluppo o diffusione, e lo mandò a un certo numero di persone in Africa sub-sahariana che avevano conoscenze ingegneristiche ed economiche, o semplicemente interesse ai problemi dello sviluppo, chiedendo di indicare in ordine di priorità le cinque tecnologie che avrebbero potuto essere le più importanti per lo sviluppo dell’Africa. Sapete quale risultò, tra tutte, la tecnologia giudicata potenzialmente più utile? Il trasporto delle merci mediante dirigibili!
Questa risposta può far sorridere, ma se ci pensate un momento, è quasi geniale. Il fondamento razionale è molto semplice. In Africa c’è un’enorme carenza di infrastrutture di trasporto: mancano strade, mancano ferrovie, mancano aeroporti; solo sulle coste e su qualche grande fiume è possibile il trasporto via acqua. Il dirigibile è il solo mezzo di trasporto che non richiede quasi nessuna attrezzatura fissa, che raggiunge qualunque punto del Continente, e che complessivamente potrebbe avere costi di sistema inferiori. È un caso di leapfrogging, il balzo nel futuro con l’adozione di una soluzione diversa da quella dei Paesi industrializzati, giustificata dall’assenza di un rete di infrastrutture che noi diamo per scontata ma che ha richiesto due secoli se non di più per metterla in piedi e che ha complessivamente un costo molto elevato.
È un po’ come quello che è successo in Ruanda e Burundi (e in Kossovo), dove la guerra ha distrutto le infrastrutture telefoniche e in particolare tutta la rete cablata, ed è stato considerato più conveniente non ricostruirla, ma utilizzare direttamente la telefonia cellulare (se non addirittura satellitare) che ha problemi e costi di impianti fissi molto inferiori.
«La scienza (o l'arte) 2.......
2......del futuribile dipende
dal technology foresight, quella 2..
2... palla di vetro in cui cerchiamo
di capire se una tecnologia è 2......
prima di tutto concepibile»
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Naturalmente sappiamo che la tecnologia dei dirigibili non si è diffusa in Africa (né altrove); ma d’altra parte non è che l’Africa si sia sviluppata molto in questi vent’anni. Certamente a questa tecnologia, oltre a molte difficoltà che non erano facilmente individuabili a prima vista, mancava anche una spinta industriale, una lobby che avesse interesse a promuoverla. È comunque un esempio di una visione futura alternativa, che se si fosse realizzata avrebbe portato a un presente diverso da quello che stiamo vivendo.
La scienza (o l’arte) del futuribile, cioè dell’immaginare un futuro possibile anche se improbabile, dipende anche dal technology foresight, quella palla di vetro in cui cerchiamo di capire se una data tecnologia è prima di tutto concepibile, poi quali ne sarebbero le conseguenze, positive e negative. Solo dopo potremo anche chiederci quanto tempo ci potrà volere, e quanto costerà. Ma il primo problema è quello di avere abbastanza fantasia da immaginare sviluppi nuovi, in direzioni anche del tutto diverse da quelle cui siamo abituati.
Ricordo vent’anni fa il rettore di una Università in Alaska, che mi diceva di voler fondare una “faculty of undiscovered sciences”, una facoltà in cui sviluppare le scienze che non erano ancora state inventate, e forse neppure immaginate! Molte iniziative hanno cercato di sviluppare queste capacità visionarie (in senso buono: visioni alternative per il futuro, possibili anche se improbabili), a livello internazionale, come la World Futures Studies Federation fondata a Parigi nel 1973, o a livello locale, come l’Università delle Hawaii, quella di Melbourne in Australia (sulle città del futuro), quella del Texas, di Stellenbosch in Sud Africa, di Taiwan e di Singapore; o il gruppo della rivista Futuribles intorno a Bertrand de Jouvenel. Ma anche in Italia non è che si sia rimasti fuori da questa problematica: basti pensare all’impatto avuto dal Club di Roma (sotto la spinta di Aurelio Peccei) che ha commissionato nel 1972 il rapporto sui Limiti dello Sviluppo del MIT (anche se indirizzato più a dire quali futuri sono impossibili, piuttosto che a individuarne di possibili); o ai lavori in questo campo (prevalentemente in ambito internazionale) di Umberto Colombo, o a qualche iniziativa della Fondazione Rosselli.
Come fare a preveder l’imprevedibile (una ovvia contraddizione in termini)? Si sono tentati degli approcci sistematici che potrebbero guidarci in qualche modo nel nostro sforzo di immaginazione.
Uno è analogo a quello dal quale siamo partiti con i dirigibili: raccogliere in modo aperto e informale una lista di tecnologie che potrebbero avere un impatto sul futuro, e sottoporle a discussione pubblica. È questo l’approccio reso possibile da internet, che viene oggi spesso indicato come wiki, dalla enciclopedia Wikipedia sviluppata appunto secondo queste linee. E andando a consultare proprio Wikipedia, troviamo una lista di “tecnologie emergenti” divise in sette sezioni, la prima delle quali è giusto l’energia.
Ma un esame delle sei tecnologie elencate sotto questa voce è piuttosto deludente; troviamo per prima la fusione nucleare, che è “emergente” ormai da 50 anni e sulla quale tutto si è detto e si è scritto. Seguono i biocombustibili, anche questi ampiamente esplorati, e l’economia basata sull’idrogeno, che sembrerebbe quasi in fase discendente di popolarità. Un po’ più fresche le altre tre candidate, tutte elettriche: le batterie a nanotubi (una speranza di superare le difficoltà dell’auto elettrica, ma anche con tante altre applicazioni); i supercondensatori (anche questi una speranza di aggirare la strozzatura delle batterie); e infine il trasporto di energia senza fili, che impiega induzione elettromagnetica, microonde o raggi laser; è l’idea del satellite di Glaser (del 1968), che genera energia dal sole fuori dall’atmosfera e la trasmette a Terra con un fascio di microonde. Esperienze recenti riguardano abitazioni quasi del tutto senza fili.
Insomma, un panorama nel complesso piuttosto deludente e senza grandi novità. Ma sbaglieremmo a fermarci qui: infatti le idee che potrebbero essere più interessanti le dobbiamo cercare non alla voce energia, ma sotto alcune delle altre sei voci. Alla voce tecnologie informatiche (le più numerose), per esempio: intelligenza arti- ficiale, macchine per la visione, calcolatori ottici, calcolatori quantici, realtà virtuale e molte altre tecnologie, che senza essere direttamente collegate all’energia potrebbero cambiare il modo in cui l’energia viene consumata (un caso per tutti: il telelavoro). Aggiungerei oggi di mio agli esempi citati anche la “programmazione genetica” (un nuovo approccio alla programmazione dei calcolatori che imita i processi di selezione genetica naturali) che sta cominciando a influenzare il mondo dei controlli, dei servomeccanismi e della robotica. Ovviamente di interesse anche le tecnologie dei trasporti: oltre a quelle delle auto elettriche o del transito personale rapido, troviamo la colonizzazione dello spazio e lo smaltimento spaziale dei rifiuti radioattivi.
Non ci lasceremo sfuggire le possibili implicazioni delle biotecnologie e della bioinformatica: l’importanza delle prime nella creazione di nuove varietà e specie destinate a produrre energia o a estrarre combustibili o semplicemente a richiedere meno fertilizzanti e meno lavorazioni per produrle; o della seconda per sostituire processi chimici più energivori: la fotosintesi artificiale; la robotica, con la nanorobotica; la swarm intelligence (autoorganizzazione di gruppi, una tecnica oggi usata anche proprio in alcuni esercizi di foresight). Importantissimo, è ovvio, il campo dei materiali, dove tecnologie di grande importanza per il settore energetico sono per esempio la superconduttività e la superfluidità ad alta temperatura, i nanomateriali a partire dai nanotubi di carbonio (batterie, celle a combustibile, celle fotovoltaiche), i catalizzatori (per risparmiare energia nell’industria di processo), materiali resistenti alla corrosione (per diminuire la domanda di rimpiazzo) e così via.
In sostanza, è importante porre molta attenzione allo sviluppo delle “tecnologie abilitanti” (enabling technologies), cioè a quelle tecnologie non specialmente energetiche e sviluppate per tutt’altre applicazioni, ma che potrebbero influenzare in modo decisivo le tecnologie energetiche e il modo in cui si sviluppano e vengono applicate.
«Non è detto che la ricerca 2...
2...............dell'inaspettato debba
partire dall'analisi 2.............
2... di tecnologie emergenti»
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Ma non è detto che la ricerca dell’inaspettato debba partire da una analisi delle tecnologie più o meno emergenti. Vi è oggi una crescente attenzione ad alcuni metodi più avanzati del technology foresight che esistono da tempo ma che sono forse stati finora trascurati.
Il primo è quello dell’individuazione dei “segnali deboli” (weak signals): prime indicazioni di nuove tendenze al cambiamento, non necessariamente nel campo delle tecnologie (quindi sul lato offerta di ricerca) quanto sul lato delle condizioni generali della società e dello sviluppo anche culturale (che influenza soprattutto la domanda di ricerca). Un esempio banalissimo: nei Paesi industrializzati, la transizione demografica ha portato a una distribuzione della popolazione per età completamente diversa da quando la popolazione era in rapida crescita, con pochi bambini e molti anziani. Ci appare oggi ovvio che c’è più richiesta di gerontologi che di pediatri, di Università per la terza età che non di asili. Questo, che oggi è scontato, sarebbe forse stato prevedibile 50 se non 60 anni fa, quando il cambiamento demografico era intuito da alcuni e presentato come un’ipotesi, di cui non si tenne praticamente conto. Un esempio di oggi: sta aumentando il numero di città che impongono balzelli pesanti per l’ingresso delle automobili in città. È una tendenza che andrà generalizzandosi? E in questo caso, come si svilupperà la richiesta di mobilità individuale nel contesto urbano, e quali risposte tecnologiche potrà avere? La ricerca di segnali deboli, provenienti dalle fonti di informazione più svariate, e spesso mascherati dal rumore di fondo, e la decifrazione del loro eventuale significato in termini di sviluppo futuro, è oggi un ramo ben riconosciuto della futurologia, con i suoi specialisti, i suoi blog, il suo spazio sulle riviste scientifiche.
Un altro concetto, che a volte si collega con quello dei segnali deboli, è quello delle wild cards: così si chiamano quegli eventi che rientrano nell’ambito delle previsioni possibili, che hanno una probabilità bassa di accadere ma che, se dovessero succedere, avrebbero delle conseguenze molto importanti. Esempi abbastanza ovvi: un grave (e molto improbabile) incidente a una centrale nucleare francese inciderebbe profondamente sul ruolo del nucleare nel mondo. Una guerra con l’Iran o una rivoluzione in Arabia Saudita potrebbe mettere in crisi la disponibilità mondiale di petrolio. O possiamo immaginare anche wild cards positive: uno sbocco tecnologico impensato che riducesse drasticamente il costo delle batterie o dei sistemi fotovoltaici potrebbe indirizzare in una direzione nuova tutti i sistemi energetici. Proprio la presenza delle wild cards rende problematica l’affidabilità dei modelli previsionali in campo energetico.
La Commissione europea, cui va dato atto di una sensibilità più che trentennale ai problemi degli studi di prospettiva in campo energetico (come nel caso del progetto EFONET - Energy Foresight Network), ha recentemente promosso un progetto di ricerca sui segnali deboli e sulle wild cards al PREST (Università di Manchester) dal nome “iKnow” (www.iknowfutures.eu).
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