di Tullio Maria Fanelli, componente del Collegio dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas
Secondo molti analisti lo scenario internazionale dei prezzi elevati del petrolio sembra essere ormai definitivo: si ritiene infatti che l’attuale situazione del mercato del petrolio derivi da una carenza strutturale di offerta, a fronte di una domanda mondiale attesa in continua crescita. Prima di giudicare tale carenza di offerta come situazione strutturale occorre però riflettere sul fatto che i costi marginali di produzione del petrolio sono ancora intorno ai 20 dollari al barile e il costo medio della produzione mondiale è ben inferiore ai 10 dollari/barile. Allora, se i costi variano da un minimo di 3 fino a 20 dollari al barile, non esiste un barile a 21 dollari? Certamente sì, e in quantità ancora molto consistenti.
Le cosiddette “riserve accertate” di petrolio, secondo le più recenti stime mondiali (citiamo, ad esempio, quelle della ExxonMobil, o dell’Oil and Gas Journal) sono valutate in circa 1.200 miliardi di barili. Un quantitativo ingente, pari a circa due volte ciò che l’umanità ha consumato negli ultimi secoli. Ci sono delle obiezioni a queste cifre:
- si tratta di valutazioni incerte;
- la massima parte di tali riserve è concentrata in pochi Paesi mediorientali;
- in ogni caso il crescente livello della domanda fa sì che bastino per pochissimi decenni (attualmente la domanda mondiale di petrolio è di circa 27 miliardi di barili/anno).
Ma si dimentica o si omette che oltre queste “riserve accertate” ovvero riserve convenzionalmente recuperabili alle condizioni economiche e tecnologiche vigenti, esistono non solo “riserve probabili” ma soprattutto risorse “non convenzionali”, quali sabbie e scisti bituminosi, di cui è nota la presenza per almeno 7.000 miliardi di barili, nonostante sino ad oggi non siano state oggetto di rilevanti attività di ricerca. Già attualmente le tecnologie disponibili consentirebbero di recuperare da tali risorsealmeno 1.500 miliardi di barili di petrolio di buona qualità a costi intorno ai 20 - 30 $/b.
Va notato inoltre che i giacimenti finora noti di tali risorse “non convenzionali” non sono in Medioriente ma sono concentrati in Paesi come il Canada, il Venezuela, la Russia e l’area del Caspio.
Ma perché queste risorse “non convenzionali” non vengono sfruttate? Il tema è stato ampiamente dibattuto nel corso del recente convegno “Politica, imprese e consumatori di fronte al caro-energia, strategie ed azioni per il prossimo futuro” organizzato nelle scorse settimane dall’Università degli Studi di Roma Tor Vergata nell’ambito di un ciclo di Forum dedicati ai megatrends dell’economia (gli atti completi del convegno, tenutosi a Roma lo scorso 15 febbraio a Palazzo Capranica, saranno pubblicati dall’editore Donzelli).
Molte cause vengono addotte: problemi ambientali, logistici, politici. Ma la vera ragione è che ancora oggi è meno costoso estrarre e raffinare il petrolio dei giacimenti “convenzionali”.
Il fatto che i prezzi siano sopra i 60 dollari al barile non implica quindi necessariamente scarsità strutturale, come molti osservatori si sono affrettati a concludere; implica solo che qualcuno ci sta guadagnando molto.
La realtà è che le grandi compagnie, per minimizzare i rischi connessi alla ricostituzione delle riserve, hanno privilegiato l’acquisizione di piccole e medie compagnie piuttosto che l’attività di ricerca ed esplorazione.
La ventennale politica di bassi investimenti e di sottovalutazione della domanda posta in atto dalle stesse compagnie petrolifere ha ridotto la differenza tra offerta e domanda di petrolio a poco più di 1 milione di b/g, valore insufficiente anche in considerazione che l’oferta residua è di greggi pesanti, utilizzabili solo da una parte del sistema di raffinazione mondiale.
CHI CI GUADAGNA
Le precedenti crisi petrolifere hanno mostrato chiaramente che di fronte a livelli di prezzo elevati si manifestano due reazioni tipiche di ogni mercato:
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la domanda è scesa (sia per iniziative di diversificazione, sia per l’elasticità tra prezzi e domanda, sia per il rallentamento dell’economia indotta dai prezzi alti);
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l’offerta è salita per la maggiore convenienza ad investire nella ricerca di nuovi giacimenti.
Sebbene i tempi necessari per adeguare sia la domanda che l’offerta siano stati dell’ordine di alcuni anni, il risultato è stato sempre un contro-shock con il crollo dei prezzi.
Questa volta le prospettive potrebbero non essere così scontate, e la motivazione va cercata nella analisi di chi ci guadagna dal protrarsi di una situazione di prezzi alti. Si tratta a livello mondiale di guadagni dell’ordine dei 1.000 miliardi di dollari l’anno, cui si sommano altri 500 miliardi di dollari l’anno per gli effetti nel mercato del metano (contrattualmente almeno in parte legato a quello del petrolio): una cifra complessiva superiore al nostro PIL.
I soggetti che guadagnano non sono solo i Paesi produttori ma anche le compagnie petrolifere: l’Eni, che pesa poco più dell’1 per cento nel mercato petrolifero, ha utili netti dell’ordine di 9 miliardi di euro, paga imposte per oltre 7 miliardi di euro e investe solo 6 miliardi di euro. In questo contesto gli investimenti di molte compagnie (ma non dell’ENI) sono cresciuti, ma meno di quanto sarebbe stato logico aspettarsi: essi sono di norma una frazione dei margini operativi e persino degli utili netti; gli utili vengono invece destinati massicciamente a ricchi dividendi.
Le motivazioni addotte sono la chiusura dei Paesi mediorientali agli investimenti esteri e le difficoltà ambientali in quelli occidentali.
La vera motivazione è che lo status quo alle compagnie va benissimo, ed è basso il rischio, per ciascuna di esse, di essere spiazzate da meccanismi concorrenziali.
Infatti la differenza con le precedenti crisi è che è cresciuta la concentrazione (dopo le molte fusioni e acquisizioni) ed è molto diminuita la concorrenza: quasi tutti i nuovi giacimenti sono “cogestiti” sia nella fase di esplorazione sia di produzione. Inoltre, soprattutto in Europa, negli anni ‘70 molte compagnie erano pubbliche o partecipate o influenzate dagli Stati e non potevano sottrarsi a collaborare per ripristinare l’equilibrio dei mercati; attualmente le residue partecipazioni pubbliche sono gestite in termini finanziari e non in termini strategici. Oggi quindi la situazione è diversa e ciò implica che la carenza di offerta, che riguarda sia la produzione sia la raffinazione, potrebbe protrarsi più a lungo, determinando picchi di prezzo insostenibili per le economie mondiali. Ma nello scenario internazionale la cosa più grave è che non si è attivato alcun serio coordinamento tra gli Stati consumatori per affrontare la situazione: ciascun Paese sta decidendo da solo.
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Gli Usa vanno avanti con una strategia basata su nuove tecnologie,
come l’idrogeno, che non potranno essere disponibili su larga scala prima di alcuni decenni.
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La Russia cerca di sfruttare al massimo, economicamente e politicamente, le opportunità derivanti dal mercato.
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La Cina e l’India hanno varato una strategia di rilancio del nucleare e del carbone e di acquisizione di partecipazioni in giacimenti esistenti in Russia e in Medio Oriente.
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L’AIE discute solo dell’utilizzo delle scorte, che sono utili unicamente per la gestione congiunturale di eventi quali i recenti uragani.
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In Europa solo negli ultimi mesi si è avviato un faticoso dibattito sulla politica energetica che sembra lontano dal produrre risultati.
In questo contesto l’Italia, che è tra i Paesi più colpiti, dovrebbe essere tra i più interessati a cercare una strategia di soluzione.
MISURE DI STATO
Come è chiaramente emerso durante il convegno “Politica, imprese e consumatori di fronte al caro-energia, strategie ed azioni per il prossimo futuro” promosso dall’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, nessun Paese europeo può incidere da solo sul mercato petrolifero.
Il mercato è sensibile a variazioni della differenza tra offerta e domanda dell’ordine del milione di b/g ovvero circa 50 milioni di tonnellate/anno; l’Italia, che è uno dei maggiori consumatori, consuma meno di 2 milioni di b/g. Ma una strategia congiunta dei 25 Paesi europei sull’offerta e sulla domanda petrolifera potrebbe essere di grande efficacia.
Sull’offerta la strategia dovrebbe essere basata sul recupero della funzione strategica delle partecipazioni pubbliche, più in generale sulla definizione di un rapporto strutturato con tutte le compagnie operanti in Europa: a fronte di impegni di massicci investimenti per incrementare la produzione petrolifera l’Europa potrebbe offrire garanzie di lungo periodo sulla effettiva redditività degli investimenti aggiuntivi (quale Paese non sarebbe disponibile oggi a stipulare un contratto di acquisto di lungo periodo a 30$/b?).
Sul lato della domanda l’iniziativa potrebbe essere ancora più efficace nel breve periodo: se l’Unione europea decidesse, ad esempio, di ridurre del 5-6 per cento i propri consumi di petrolio in un periodo sufficientemente breve (ad esempio entro i prossimi 6 mesi o 1 anno) ciò significherebbe ridurre la domanda mondiale di circa 1 milione di b/g.
La riduzione potrebbe essere ottenuta attraverso sia misure permanenti che misure temporanee, la cui individuazione potrebbe essere lasciata ai singoli Stati; l’impegno dovrebbe essere solo su quantità e tempi, e dovrebbe essere vincolante per essere credibile a livello dei mercati.
Così come l’OPEC opera sul fronte dell’offerta, la Ue potrebbe trimestralmente rivedere in modo automatico gli impegni (in aumento o in diminuzione) a fronte del raggiungimento di un target di prezzi del petrolio. Gli effetti della decisione potrebbero essere immediati in quanto si inciderebbe significativamente sulle aspettative del mercato e potrebbero essere amplificati dall’eventuale successiva adesione di altri Paesi, primi tra tutti gli Usa.
Se il programma di intervento coordinato di riduzione della domanda mondiale raggiungesse la dimensione di 2-3 milioni di b/g esso sarebbe certamente in grado di ricondurre rapidamente i prezzi del petrolio a valori “normali”. Questo è il tema che dovrebbe essere al centro delle iniziative internazionali.
ITALIA PARTICOLARE
Negli ultimi anni si è fermato il trend di riduzione dell’intensità energetica dell’economia italiana, ovvero del consumo di energia per unità di PIL, in controtendenza rispetto al contesto europeo.
Ciò ha ridotto o annullato il primato che l’Italia aveva per molte ragioni, anche climatiche, di Paese europeo con la maggiore efficienza energetica.
Contestualmente si è quasi completato il processo di metanizzazione dell’economia italiana che, partito molti anni fa dal riscaldamento civile, si è poi esteso all’industria e, negli ultimi anni, al settore elettrico: non vi è dubbio che almeno per i prossimi 10-20 anni la questione del metano sarà decisiva per la politica energetica ed economica dell’Italia.
Efficienza energetica e metano sono quindi i due fattori che caratterizzano e differenziano l’Italia nel contesto europeo e sui quali è necessario intervenire in termini strategici. Ciò non implica che vadano trascurate le politiche per la diversificazione delle fonti, con particolare attenzione alle rinnovabili e al carbone pulito, ma occorre tener conto che su tali temi l’Italia non potrà avere una posizione di leadership industriale o tecnologica, purtroppo ormai consolidate, se non in termini di nicchia.
Gli obiettivi andrebbero quindi commisurati anche alla quota di valore aggiunto italiano di tali investimenti.
Esemplare, in negativo, è il caso del fotovoltaico: se davvero dovessimo realizzare nei prossimi anni 1.000 MW fotovoltaici remunerati a 50 c di euro per kWh per venti anni, come prevedono le attuali regole, ciò implicherebbe un costo di oltre 10 miliardi di euro per i consumatori italiani a fronte di una produzione dello 0,3 per cento dei consumi elettrici e soprattutto solo a beneficio dell’industria tedesca e giapponese produttrice di pannelli fotovoltaici.
L’Italia non se lo può permettere.
SÌ ALL'EFFICIENZA
Ogni dollaro in più sul prezzo del barile costa all’Italia circa un miliardo di dollari all’anno, tenendo conto dei riflessi del prezzo del petrolio sugli altri prodotti energetici.
Buona parte di questo costo aggiuntivo pesa anche sul bilancio pubblico sia come impatto diretto sia come conseguenza degli effetti macroeconomici. Per ridurre questo impatto è indispensabile uscire dalla logica che associa l’efficienza ad un costo da sopportare, e lanciare un programma nazionale di efficienza energetica che possa connotare l’Italia in ambito europeo.
Il punto di partenza normativo è lo strumento posto in atto già nel 2001, e successivamente aggiornato nel 2004, dei cosiddetti Certificati Bianchi, per certi versi innovativo e molto promettente; esso è basato da una parte sull’obbligo per i distributori di energia elettrica e gas di conseguire obiettivi di risparmio energetico in tempi prefissati, dall’altra sulla parziale remunerazione degli interventi effettuati. L’Autorità per l’energia elettrica e il gas ha già dato attuazione a tali provvedimenti e il recente accordo di collaborazione tecnica con l’ENEA consente di disporre delle competenze necessarie per una attuazione su larga scala dei meccanismi. Ciò che rende ambizioso ogni obiettivo di efficienza energetica non è infatti la necessità di risorse, pure indispensabili, ma il grande sforzo organizzativo; occorre coinvolgere enti locali, enti di ricerca, famiglie e imprese in un impegno collettivo che abbia il suo punto di forza nella peculiare frammentazione dimensionale e territoriale del sistema imprenditoriale che, sotto altri punti di vista, rappresenta un punto di debolezza del Paese.
Per far ripartire con decisione il trend occorre incidere sulla scarsa propensione di famiglie e imprese ad investire per l’efficienza energetica; la causa non è quasi mai legata alla diseconomicità degli interventi. Sono altri i fattori.
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le difficoltà di identificazione degli interventi;
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il problema della valutazione delle convenienze;
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il sistema decisionale nell’ambito dei condomini;
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l’individuazione di operatori adeguati;
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la scelta della componentistica appropriata;
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naturalmente anche il reperimento di idonei finanziamenti.
È quindi fondamentale creare una rete di riferimenti locali che siano in grado di erogare il “servizio di efficienza energetica” ovvero costruire un sistema a disposizione di famiglie e imprese per raggiungere obiettivi quali la riduzione dei costi, l’incremento dell’innovazione tecnologica, lo sviluppo industriale e dei servizi, la riduzione dell’impatto sull’ambiente e delle emissioni di gas serra.
SICUREZZA E PREZZI
In Italia il livello di offerta non è adeguato né per garantire un appropriato grado di sicurezza degli approvvigionamenti, come dimostrano gli avvenimenti di questo inverno, né, tanto meno, per attivare la concorrenza.
Le attuali infrastrutture di importazione e di stoccaggio hanno infatti una capacità insufficiente per soddisfare la domanda, e conseguentemente i prezzi del gas sul mercato italiano consentono ampi margini agli importatori e riflettono le escursioni dei prezzi di importazione, a loro volta agganciati a meccanismi di indicizzazione ai prezzi internazionali del greggio.
Per conseguire sia l’obiettivo della sicurezza che quello dell’economicità dei prezzi occorre operare per fare evolvere l’Italia da Paese consumatore a Paese di transito dai Paesi produttori africani e asiatici verso l’Europa centrale.
In tal modo sarà possibile diversificare i Paesi produttori da cui è possibile far provenire il gas verso l’Italia (ora Russia, lgeria, Libia, Norvegia e Olanda) aggiungendone di nuovi (Egitto, atar, area del Caspio), in modo da creare concorrenza tra produttori e sganciare progressivamente i prezzi del metano da quelli del petrolio.
L’onere di questo sovradimensionamento del sistema infrastrutturale italiano può essere mutato in una opportunità, posto che anche nel resto d’Europa nei prossimi dieci anni è necessario aumentare le importazioni di oltre 200 miliardi di metri cubi/anno a causa del calo delle produzioni (il Regno Unito è divenuto un Paese importatore) e della crescita della domanda.
Tale ruolo di Paese di transito garantirebbe non solo prezzi più competitivi rispetto al contesto europeo ma anche valore aggiunto connesso all’attività di trasporto nonché la capacità strutturale di sopperire ad ogni interruzione, anche non accidentale, dell’approvvigionamento.
L’Italia è in una posizione geografica ideale per svolgere tale ruolo ma, poiché esistono progetti alternativi di passaggio attraverso i Balcani, la tempestività delle decisioni è essenziale per attuare compiutamente tale strategia.
È quindi necessario avviare rapidamente la realizzazione di nuovi metanodotti internazionali, nuovi terminali di rigassificazione del gas naturale liquefatto e nuovi stoccaggi con riferimento alla domanda europea e non solo a quella nazionale.
Per l’attivazione di tali investimenti è urgente disporre di soggetti che gestiscano tali attività senza influenze da parte dell’operatore dominante e in generale dagli operatori che svolgono le attività di importazione e vendita, che sono ovviamente interessati a restringere artificialmente l’offerta per mantenere alto il livello dei prezzi.
In particolare il maggiore soggetto trasportatore, Snam Rete Gas, se fosse pienamente affrancato dall’Eni potrebbe efficacemente contribuire anche alla realizzazione di infrastrutture internazionali di approvvigionamento, inclusi nuovi terminali di rigassificazione e la relativa logistica (navi metaniere).
È infine necessario valutare tutte le possibilità per fermare il declino della produzione nazionale di gas causata dal blocco delle attività di esplorazione e produzione per opposizioni ambientali non sempre suffragate da motivazioni scientifiche.
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