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Punto e spunti sull’energia (oggi e domani) Stampa E-mail

di Ugo Farinelli


da Vienna

La Conferenza Europea dell’IAEE (l’Associazione Internazionale Economisti dell’Energia) tenuta a Vienna a settembre, col titolo Energia, politiche e tecnologie per economie sostenibili, è stata un’ottima occasione per vedere che cosa si muove (molto) e che cosa sta fermo (troppo) in questo variegato e pervasivo mondo dell’energia. Ormai tradizionale luogo di incontro tra economisti e tecnologi che cercano di capirsi a vicenda (e spesso ci riescono anche), è lontano da ogni contrapposizione ideologica. Si riesce a parlare con calma e con serietà (anche se, come vedremo, assai poco) pure di energia nucleare.
Primo spunto: la crisi economica mondiale. Una volta tanto tutti sono d’accordo che di questa crisi non possiamo dare la colpa all’energia, nonostante i prezzi record del petrolio dell’estate 2008. Ma questo non vuol dire che la crisi non avrà ripercussioni, e anche importanti, sull’evoluzione dei sistemi energetici in tutto il mondo, e in Europa in particolare. A questo tema è stato dedicato il primo autorevole intervento di Fatih Birol - economista capo della Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) - che ci ha dato, come è d’uso, una notizia buona e una cattiva.

La notizia buona (si fa per dire) è che siccome l’economia ha rallentato, sono calati i consumi energetici e di conseguenza le emissioni di gas serra. Per la prima volta nella storia, il 2009 vedrà una diminuzione dei consumi elettrici a livello mondiale rispetto all’anno precedente. Questo forse salverà in extremis il rispetto degli impegni di Kyoto e ci eviterà di stretta misura (a noi europei) una figuraccia. Ci lascia anche un poco di margine per cercare di raggiungere gli obiettivi del 2020, rende il traguardo del non superamento delle 450 parti per milione di CO2 nell’atmosfera meno irraggiungibile e allenta un po’ le preoccupazioni sulla sicurezza degli approvvigionamenti energetici, almeno per l’immediato. Non solo: la crisi ha portato alla riduzione dei costi del petrolio, prima in modo eccessivo e incontrollato, poi rientrando in quell’intervallo che viene ritenuto ragionevole per lo sviluppo dell’economia e per l’ingresso graduale di nuove fonti e tecnologie.
La cattiva notizia, invece, è che la crisi ha portato a una forte diminuzione degli investimenti in campo energetico, come naturalmente anche in altri campi, ma qui in modo particolare per i lunghi tempi di ritorno del capitale caratteristici della maggior parte di queste attività. Nel 2009 gli investimenti nel settore upstream degli idrocarburi vedono una diminuzione del 21 per cento rispetto all’anno precedente; in queste condizioni diventa molto problematico mantenere il livello attuale di produzione (in particolare di petrolio) e la ripresa dell’economia mondiale prevista a partire dal 2011 potrebbe portare rapidamente a una sproporzione tra domanda e offerta di energia, quindi a nuovi aumenti dei prezzi e a nuove tensioni (il pessimista dice: peggio di così le cose non possono andare; l’ottimista: sì che possono!).
Anche gli investimenti a sostegno delle fonti rinnovabili sono condizionati dalla crisi: per rispettare gli obiettivi comunitari al 2020, occorrerebbe un livello di investimenti quattro volte quello attuale.
Secondo Fatih Birol, non si è percepita in Europa l’importanza di una rivoluzione silenziosa avvenuta negli Stati Uniti per quanto riguarda le fonti non convenzionali di gas naturale, che stanno avendo un grande boom. Le previsioni di importazione di GNL negli Stati Uniti sono corrispondentemente diminuite, rilassando la tensione sul mercato internazionale. I produttori guarderanno ad altri mercati (in particolare in Asia), ma la domanda dovrebbe rallentare e i prezzi scendere. Questo non ha rapporto con la crisi economica, ma certamente aiuta.


Altro spunto offerto da Birol: qualcuno ci ha guadagnato, qualcuno si è rafforzato (sempre in campo energetico) in seguito alla crisi? La sua ipotesi: alcune tra le maggiori aziende energetiche, in seguito al processo di shake-off e di concentrazione, specie nel campo delle rinnovabili; e, a livello mondiale, la Cina, per gli enormi investimenti che continua ad essere in grado di fare in campo energetico anche all’estero e per essere stata meno colpita degli altri Paesi dalla crisi economica.

Una valutazione quantitativa degli effetti della crisi sul panorama energetico è stata tentata da Pantelis Capros, il greco creatore del modello Primes che è usato dalla Commissione europea (e in particolare dalla Direzione Trasporti ed Energia) per le stime di riferimento dell’evoluzione a lungo termine dei mercati dell’offerta e della domanda di energia. Secondo le sue valutazioni, basate appunto su modifiche apportate al Primes, gli effetti della crisi non scompariranno al momento della ripresa, ma si faranno sentire per lungo tempo, anche con una riduzione non riassorbita del Pil: riduzione dei consumi e delle emissioni rispetto alle previsioni pre-crisi; maggiore difficoltà a reperire gli investimenti necessari (anche in seguito al valore relativamente basso dei permessi di emissione). Mentre proprio adesso sarebbe necessario investire più soldi per le rinnovabili, la cattura e sequestro della CO2, le reti e le infrastrutture, e forse anche nel nucleare.

Altro spunto di riflessione offerto da Capros: per indirizzare i sistemi energetici verso la sostenibilità occorrono (e sempre più occorreranno) interventi di regolazione e di normativa che limiteranno sempre più lo spazio di concorrenzialità in campo energetico. Assisteremo allora alla nascita di nuovi mercati realmente concorrenziali, in particolare quelli dei certificati? Georg Erdmann, presidente in carica dell’IAEE, ha posto una domanda provocatoria: perché gli economisti hanno sbagliato “tanto” nelle loro previsioni? E ha cercato di dare una risposta.
A suo avviso, sono state sottovalutate la componenti macroeconomiche di carattere finanziario, dando troppa enfasi alla microeconomia e agli approcci bottom up, che rischiano di vedere gli alberi e non la foresta e che trascurano le manovre speculative: manovre che a volte aiutano la stabilità del mercato, attenuando le oscillazioni, mentre altre volte - come nel caso presente - diventano destabilizzanti. Il problema deriverebbe da un eccesso di liquidità, che non è più adeguatamente rappresentata dall’indice di prezzo al consumatore.

Molti pensano che con Copenhagen le cose possano cambiare: non tanto per l’allargamento a pieno titolo della base ad altri protagonisti (gli Stati Uniti e i Paesi emergenti), quanto perché i nuovi entranti avranno idee diverse, e potrebbero quindi imporre nuove regole e creare nuovi strumenti: un cambiamento che potrebbe essere più importante che non l’accordo (non certo facile) su obiettivi quantitativi condivisi secondo i vecchi schemi. In particolare, se gli Stati Uniti saranno in grado di tradurre in pratica le indicazioni programmatiche del presidente Obama (nonostante le difficoltà emerse in Usa con il Congresso e in particolare con il Senato), è certo che non si accontenteranno di accodarsi alle iniziative europee, ma vorranno invece rivedere il terreno stesso della discussione, partendo da un punto di vista differente, e sperabilmente portando una fresca ventata di nuove idee. Qualche pessimista ha invece espresso il timore che Copenhagen diventi una Babele, dove non ci si mette d’accordo sul significato delle parole.

Ci si è chiesti a Vienna se alla luce di questi fatti nuovi, l’obiettivo politico del 20-20-20 possa ancora ritenersi valido per l’Unione europea. Una discussione su questo argomento è attualmente in corso soprattutto in Germania, ed è stata ripresa nella conferenza. Ci si domanda, per esempio, se sia realmente necessario porre tre obiettivi separati per le emissioni, per le rinnovabili e per l’efficienza energetica, o se non sarebbe meglio concentrarsi su un solo obiettivo, quello del contenimento delle emissioni di gas serra: gli altri seguirebbero di conseguenza, una volta che il valore della CO2 rispecchiasse tutte le esternalità. Tutt’al più i governi dovrebbero investire nella ricerca e sviluppo e nella rimozione delle barriere e delle imperfezioni del mercato. Fonti rinnovabili ed efficienza energetica dovrebbero essere visti come strumenti per raggiungere gli obiettivi della politica energetica piuttosto che come obiettivi di per se stessi. La maggior parte della Conferenza si è svolta su sessioni in parallelo, che riguardavano rispettivamente: le fonti rinnovabili; i trasporti, i biocombustibili e la sicurezza di approvvigionamento; le reti elettriche; l’efficienza energetica; i combustibili fossili (in pratica solo petrolio e gas); il mercato elettrico; gli investimenti; la sostenibilità e i cambiamenti climatici.

Potrebbe stupire l’assenza del nucleare da questo elenco di sessioni. In effetti, un solo lavoro (dalla Lituania) su circa 300 riguardava l’energia nucleare. A questo vuoto (di per sé assai significativo) si è rimediato con una sessione semi-plenaria dal titolo: La crisi economica ucciderà il Rinascimento Nucleare? con un dibattito tra un pronucleare della IAEA e due scettici (tedesco e inglese). Prima di tutto è molto dubbio che indipendentemente dalla crisi economica vi fosse in atto un Rinascimento Nucleare. I segnali più positivi sono quelli americani, dove il governo (già con Bush) concede garanzie sui capitali investiti (fino all’80 per cento del totale); sembra che Obama mantenga questo impegno, ma non vi sono per il momento proposte concrete in atto. Nel Regno Unito il governo, dopo una prima uscita a favore, si è impegnato a non sussidiare il nucleare con fondi pubblici (qualcosa probabilmente andrà avanti lo stesso, ma non molto e non subito).

La Cina ha un grosso programma nucleare, che però è poca cosa rispetto al gigantesco programma energetico complessivo. In Germania le nuove elezioni potrebbero portare a riconsiderare la decisione di chiusura progressiva delle centrali nucleari, ma forse no; e rimane solo la conversione nucleare del governo italiano che, per quanto seria, è ancora lontana dal portare risultati concreti. Il maggiore ostacolo alla rinascita del nucleare sta venendo dal pessimo esempio della centrale finlandese, in ritardo di quasi quattro anni, che verrà a costare il doppio del previsto, e dove tutti i protagonisti stanno litigando tra di loro in modo poco edificante: e questo con la crisi economica non c’entra. Complessivamente - sembra essere questa la conclusione della sessione - il contributo del nucleare all’approvvigionamento di energia non è grande (specie se espresso in termini di energia finale), e non lo diventerà a livello mondiale, ma solo in alcuni Paesi.Inoltre, nonostante l’ottimismo ufficiale delle aziende, i reattori evolutivi come EPR non sono ancora a punto (in particolare nel caso finlandese questo è emerso per quanto riguarda controlli e strumentazione) e il range di costi è ampio ed elevato (si è passati da 1.000 dollari/kW a una forchetta tra 3.000 e 6.000). Le perplessità e gli ostacoli sono i soliti - finanziari, economici, di sicurezza, di proliferazione e di scorie - con qualche enfasi sull’assottigliarsi delle competenze tecniche disponibili sia per l’industria sia per i controlli, sulla proliferazione e sulle azioni terroristiche. L

’uso efficiente dell’energia rimane nella maggior parte dei casi la prima priorità. I messaggi che arrivano sono abbastanza coerenti. C’è ancora un margine molto consistente di risparmio a costi negativi (cioè il costo attualizzato dell’intervento di risparmio è inferiore al valore dell’energia risparmiata); questo vale principalmente nel settore degli edifici (in particolare di quelli residenziali ma anche dei servizi), in secondo luogo per i trasporti, e meno per l’industria, dove gli interventi più convenienti sono già stati effettuati. Se vi sono ancora larghi margini di aumento dell’efficienza che non vengono sfruttati è perché ci sono molte barriere che non sono facili da superare: da quella della dubbia distribuzione dei costi e dei ricavi tra proprietario e inquilino, alla mancanza di informazioni affidabili; dalla accessibilità di crediti a condizioni ragionevoli quando gli interventi sono frammentati, a tutta una serie di motivazioni non economiche (o non direttamente economiche).

Gli strumenti di politica per stimolare l’uso razionale dell’energia non mancano (a cominciare dai Certificati Bianchi), e hanno avuto delle storie di successi (anche in Italia), ma devono aumentare molto la loro portata; finora sono serviti soprattutto a cogliere delle occasioni particolari, come l’aumento dell’isolamento degli edifici nel Regno Unito, gli impianti di riscaldamento in Francia, le lampade ad alta efficienza in Italia, e qualche elettrodomestico di classe superiore in tutti e tre. Estendere le applicazioni a tappeto è fattibile, e previsto dall’impianto legislativo, ma non è semplice tenere bassi i costi di gestione dello strumento, e al tempo stesso evitare i free rider, quelli che ottengono un sussidio per fare qualcosa che farebbero comunque. Anche ai tempi occorre stare molto attenti, evitando lungaggini scoraggianti, specie nel caso dell’industria che è abituata a ragionare in tempo reale.

Una nota un po’ di dettaglio: una decina dei lavori presentati studiavano un problema ben noto ma che forse non ha ricevuto in passato sufficiente attenzione: quello degli effetti di rimbalzo (rebound effects). Adottare una tecnologia più efficiente vuol dire ottenere lo stesso servizio energetico con meno dispendio di energia, e quindi anche a costi minori. La valutazione che si fa in genere presuppone che la domanda per il servizio energetico rimanga costante, e quindi che il consumo energetico diminuisca in proporzione. Questo però vale solo quando la domanda di servizio è satura, e non avrebbe senso aumentarla (come nel caso di lavare i piatti sporchi). Molto spesso però la domanda non è satura, e visto che il servizio energetico costa di meno ne richiedo di più: per esempio cercherò una temperatura in casa un poco più alta in inverno, o richiederò una maggiore illuminazione pubblica a vantaggio della sicurezza. C’è quindi un effetto di rimbalzo diretto dovuto all’elasticità della domanda di servizi energetici rispetto al loro prezzo, che è stata valutata in vari casi con risultati che (semplificando molto) vanno tipicamente dal 10 al 30 per cento (di tanto dunque si riduce l’effetto benefico dell’introduzione di tecnologie più efficienti).
Ma vi sono anche effetti indiretti di rimbalzo, molto più difficili da valutare ma che possono essere dello stesso ordine di grandezza: per esempio, se risparmio soldi perché pago meno i servizi energetici, avrò più soldi da spendere per qualcosa d’altro: per che cosa? E con quale contenuto di energia? Insomma, per questi motivi le politiche di efficienza energetica ottengono complessivamente dei risultati alquanto inferiori alle aspettative. Inoltre (e anche su questo c’è un vasto accordo) gli interventi tecnologici hanno una portata limitata se non sono accompagnati anche da un cambiamento del comportamento e delle abitudini degli utenti, che ha alla base un mutamento culturale: non facile da realizzare e che richiede comunque tempi lunghi.

Le fonti rinnovabili proseguono il loro cammino di diffusione, con qualche rallentamento per la crisi economica, ma sostenute da incentivi sempre molto consistenti. La percentuale di produzione di elettricità da fonti rinnovabili, in particolare, non è più sempre piccola, e cominciano a presentarsi problemi dovuti alla inadeguatezza delle reti ad accogliere contributi distribuiti e almeno parzialmente aleatori: molti esempi di studi di questa problematica sono stati presentati alla conferenza. Un altro aspetto accennato ma forse non sufficientemente approfondito nei lavori presentati è stato quello del legame tra lo sviluppo del mercato delle rinnovabili e lo sviluppo delle loro tecnologie. In quale misura gli attuali (generosi) strumenti di incentivazione promuovono il progresso tecnologico, e in particolare non quello incrementale - un passettino dopo l’altro - ma quello realmente innovativo, di sostituzione di una tecnologia con una radicalmente diversa? O c’è il rischio di congelare le situazioni attuali finché funzionano e generano ritorni? Qualche dubbio c’è e si vede.

Sull’intera impostazione della conferenza, una gentile e costruttiva critica proveniente niente meno che dall’OPEC, o meglio dall’OFID(Opec Fund for International Development) che ha svolto un ruolo non secondario nel promuovere la conferenza, finanziando la partecipazione di una ventina di studenti provenienti da Paesi in via di sviluppo (non soltanto dell’OPEC). Il direttore generale dell’OFID, Suleiman J. Al Herbish, in un’occasione conviviale, rispondendo ai ringraziamenti degli organizzatori per il sostegno a questa conferenza, ha detto in sostanza: ci sono tre motivazioni di fondo per cambiare i sistemi energetici: la sicurezza degli approvvigionamenti; gli effetti climatici; e la lotta alla povertà (di cui la povertà energetica è un elemento importante). Nella conferenza si è sentito molto parlare dei primi due, ma ben poco è stato detto del terzo.
Se si pensa che un miliardo e mezzo di persone non hanno accesso a forme moderne di energia, che solo il 26 per cento della popolazione dell’Africa e il 50 per cento di quella indiana sono collegati a reti elettriche, gli altri problemi sembrano modesti al confronto. Nel rispondere a questa non del tutto ingiustificata critica, il presidente Georg Erdmann ha ricordato che la prossima conferenza mondiale dell’IAEE si terrà nel giugno prossimo a Rio de Janeiro, in un Paese che si può ancora considerare in via di sviluppo, nonostante i suoi enormi progressi e la ricerca di strade nuove: in quella occasione la lotta alla povertà avrà un posto centrale. Non per nulla chi ha introdotto per primo il concetto di povertà energetica è stato José Goldemberg, già ministro dell’Ambiente brasiliano.

 
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