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Riecco la finanza petrolifera e il prezzo riprende a volare Stampa E-mail

di Drilling


A dicembre scorso il prezzo del Brent era sceso fino a 37 dollari/barile e la gran parte degli analisti pensava che potesse ancora scendere a livelli più bassi. Molti progetti di sviluppo di riserve petrolifere in aree difficili, che richiedono una tecnologia complessa e investimenti massicci, sono stati rinviati a tempi migliori. Contrariamente alle attese il prezzo, a partire da gennaio, è risalito dollaro dopo dollaro via via che l’inverno mostrava per la prima volta dopo dieci e più anni temperature basse e città imbiancate dalla neve. Sia il Nord Europa sia la costa orientale americana hanno rivisto tormente di neve e laghi ghiacciati. In Olanda si è potuto pattinare sui canali e far svolgere la maratona di pattinaggio.


Con l’arrivo della primavera si temeva nuovamente il crollo di un prezzo che sembrava stabilizzato intorno ai 45 dollari/ barile. E invece, finito il picco della domanda invernale, quando soprattutto negli Stati Uniti si sarebbe dovuto sentire l’effetto dell’attesa discesa della domanda di benzina, il prezzo ha ripreso la sua scalata verso livelli più elevati. Abbiamo intravisto i 60 dollari/barile (e il WTI l’ha raggiunto). In passato abbiamo trattato a più riprese il tema della benzine americane e il ruolo di traino del mercato che ormai svolgono da quasi un decennio. Non ripeteremo queste analisi. È però un dato di fatto che il fenomeno incomincia ormai a essere noto anche agli analisti finanziari e agli operatori di Borsa.Conviene allora partire da un’altra domanda di grande attualità. La crisi finanziaria ha fatto fallire alcune grande banche e istituzioni finanziarie che operavano massicciamente nella Borsa petrolifera, influenzandone pesantemente il corso.

Per alcuni mesi, il volume di affari nel mercato del Brent era sceso di diversi miliardi di dollari/giorno. Altre banche e istituzioni finanziarie sono sopravvissute e ora più che mai hanno il problema di investire i loro capitali (rimasti o ri-iniettati dai governi) in attività che consentano loro una remunerazione rapida e sostanziosa. Dai dati ampiamente diffusi dalla stampa specializzata è evidente che l’ultima priorità delle banche sembra essere il finanziamento di medie e piccole aziende produttrici che hanno un vitale bisogno di liquidità. Come pure non sembra assolutamente maturo il momento di rimettere i capitali nel normale gioco di Borsa, acquistando azioni di aziende il cui sviluppo potrebbe essere ancora incerto per qualche anno. Chi dispone oggi di ingenti capitali vuole giocare sul sicuro.


E il petrolio costituisce oggi la forma più remunerativa di investimento a breve. In marzo e aprile le masse monetarie circolate nelle due principali Borse petrolifere (Nymex e ICE) hanno determinato transazioni al di sopra della soglia storica di 20 miliardi di barili equivalenti di petrolio (di carta), con un picco di 22 miliardi. Siamo cioè sopra, di circa il 20 per cento, i valori massimi registrati nel pieno dell’onda speculativa della primavera 2008.


L’Opec penserà che il rialzo dei prezzi sia il risultato dei tanto annunciati tagli della produzione, il frutto di una ritrovata coesione fra i Paesi produttori di petrolio. Si tratta ovviamente di un’ipotesi consolatoria che accontenta i vari ministri del petrolio dei Paesi Opec, i quali possono continuare a fare dichiarazioni solenni alla stampa e discorsi ufficiali nelle varie sedi politiche. E continua a fornire un alibi ai governi dei Paesi consumatori, che avranno la conferma che quando l’Opec vuole le cose vanno nella giusta direzione e quindi il problema è proprio quello, non la necessità di cambiamento della politica energetica e industriale in tali Paesi. In realtà, il rialzo dei prezzi sta avvenendo mentre il mercato è strapieno di greggio e molti Paesi hanno serie difficoltà a trovare dei compratori. In molti terminali petroliferi si rischia il cosiddetto full storage, il riempimento di tutta la capacità di stoccaggio e quindi la fermata degli impianti di produzione. Questo è il vero senso degli tagli di produzione dell’Opec: non si esporta (e quindi non si produce) tutto ciò che non si riesce a vendere. E lo si chiama taglio di produzione programmato. In un quadro simile, dal mercato fisico (reale) del petrolio dovrebbe arrivare un segnale di forte depressione dei prezzi e non una spinta al rialzo.


Dobbiamo viceversa attenderci per tutta l’estate un’onda speculativa al rialzo, cavalcata da tutte le istituzioni finanziarie, forti della tenuta del prezzo delle benzine americane. Fra l’altro, Obama ha appena dichiarato che renderà ancora più severe le misure ambientali sui combustibili per autotrazione, estendendole anche a quelli per i mezzi di trasporto pesante (camion per trasporto merci, che negli Usa sono alimentati da motori a benzina).
Possiamo, infatti, vedere chiaramente dal grafico che, nonostante l’aumento del prezzo del Brent, il rapporto fra prezzo della benzina americana e valore del Brent rimane ancora a livelli elevatissimi, intorno a 1,35. Il che vuol dire che esistono ancora margini notevoli per l’ulteriore crescita del prezzo del greggio. Esiste quindi un supporto del mercato fisico americano all’ondata speculativa. Poiché, al di là di ogni dichiarazione di buona volontà, i mercati finanziari, e soprattutto quelli delle commodity, continuano a funzionare con le regole del passato, non c’è alcuna ragione per pensare che l’onda non verrà cavalcata fino in fondo, ovvero almeno fino alla fine di luglio. Poi, come al solito, si vedrà.

 
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