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Maledetta Chernobyl - La vera storia del nucleare in Italia Stampa E-mail

di Angelo Gerli


Se si riuscisse a considerare il problema elettronucleare italiano scevri da preconcetti e da false ideologie, si potrebbero condividere spassionatamente le analisi e le conclusioni esposte da Francesco Corbellini e da Franco Velonà nel libro Maledetta Chernobyl - La vera storia del nucleare in Italia, in libreria dalla fine dello scorso anno.

Il caso Chernobyl, maledetto nel titolo a forte impatto ambientale, in effetti nella trattazione degli autori non risulta altrettanto centrale quanto lo è la vera storia del nucleare in Italia.
Gli autori, basandosi su elementi essenzialmente tecnici e statistici, quindi difficilmente contestabili, analizzano i successi e i limiti delle prime realizzazioni di centrali nucleari in Italia, i vincoli politici, economici e industriali che ne hanno rallentato il successivo sviluppo, i motivi del tragico abbandono del programma, causato da un’interpretazione di tipo emozionale e non tecnica del disastro di Chernobyl.

È la prima parte del libro, da cui risulta uno spaccato di vita italiana che mette in evidenza i difetti e le remore, endemiche nel sistema, che hanno impedito serie e tempestive decisioni di programmazione economica e industriale, osteggiate da conflitti economici e politici, da contrapposizioni industriali tra pubblico e privato, da pastoie burocratiche.
Il fiore all’occhiello delle tre centrali elettronucleari già in servizio nel 1964, a cui nel 1978 si sarebbe aggiunta quella di Caorso, che poneva l’Italia all’avanguardia mondiale nel settore, era in effetti gravato dal peccato originale della mancata scelta univoca della tecnologia adottata per la loro realizzazione.
Conflitti politici, il caso Ippolito, gli interessi economici settoriali dei petrolieri, la debolezza della struttura industriale che creava difficoltà alle società di ingegneria, le problematiche gestionali dell’Enel dopo la nazionalizzazione delle industrie produttrici di energia elettrica, sono individuate come le cause dei ritardi e delle inadempienze che hanno ostacolato le realizzazioni dei Piani energetici nazionali.
Si arrivava così alla vigilia del disastro di Chernobyl in grave ritardo rispetto a quanto i Piani avevano posto come obiettivi per lo sviluppo: una potenza nucleare totale installata di 5.000 MW, senza contare altre centrali che erano state pianificate per gli anni successivi. In realtà a tale data risultava in costruzione la sola centrale di Montalto di Castro, dimensionata per una potenza in linea con quella che a livello mondiale era giudicata ottimale per quel tipo di realizzazioni, ma ancora largamente insufficiente per raggiungere gli obiettivi del Piano.
A quel punto, aprile 1986, al momento del disastro di Chernobyl l’opinione pubblica italiana, forse non ancora tranquillizzata dalla convivenza rassicurante con una consistente struttura elettronucleare, interpretava in modo del tutto emozionale un fatto, senz’altro tragico, ma che gli autori, con stringente evidenza tecnica e scientifica, dimostrano del tutto casuale e assolutamente irripetibile nelle centrali presenti nel resto del mondo.

A Chernobyl un gruppetto di tecnici ignoranti e presuntuosi si misero a giocare con un reattore ignorando le regole basilari della sicurezza, disattivando i sistemi di protezione. La mancanza dei sistemi di sicurezza intrinseca e le deficienze progettuali uniche in quel particolare tipo di centrale, permisero poi i terribili eventi conseguenti.
All’opinione pubblica italiana venivano nuovamente agitati gli spettri del nucleare, senza che nessuno si preoccupasse di evidenziare il fatto che fino ad allora, dal momento dell’entrata in funzione della prima centrale nucleare, e anzi, dai tempi della pila di Fermi, non si era mai verificato un incidente mortale in nessuno dei numerosissimi reattori in funzione nel mondo.
Mentre nel resto del mondo si faceva tesoro dell’esperienza di Chernobyl per accrescere ulteriormente la sicurezza delle centrali nucleari, in Italia si arrivava al referendum che dava motivo alle decisioni che avrebbero portato al completo arresto di ogni iniziativa.

Nella seconda parte del libro gli autori esaminano le conseguenze di tale decisione e tranquillizzano, utilizzando argomentazioni unicamente tecniche e scientifiche, anche in merito ai punti normalmente più controversi nella prospettiva della ripresa del programma elettronucleare in Italia.
Le programmazioni energetiche italiane, in mancanza di un apporto nucleare, hanno privilegiato il gas rispetto all’olio combustibile, squilibrando completamente il mix delle fonti primarie utilizzate rispetto a quello che mediamente si riscontra nel resto d’Europa e nel mondo. Ne conseguono costi dell’energia valutati in 71 euro/MWh (base 2007) contro i 38,8 euro/MWh, media dei principali mercati europei, e una dipendenza dal gas, in effetti molto più pesante di quella da olio combustibile, poiché il mercato del gas è un oligopolio.
I vantaggi dell’adozione del nucleare in termini di riduzione delle emissioni di gas serra e di elevatissimi rendimenti energetici, resi possibili dalle più recenti tecnologie, sono noti; più interessanti sono le considerazioni degli autori in merito a due punti critici: le scorie e i rapporti tra applicazioni militari e civili.
Le nuove tecnologie ridurranno i problemi legati all’immagazzinamento delle scorie, punto che del resto non è più già ora un problema irresolubile all’estero. Per quanto riguarda il secondo punto di possibile preoccupazione, poco nota al grande pubblico è l’opportunità di convertire testate nucleari nate per scopi bellici in combustibile per centrali. Un quarto degli ordigni nucleari immagazzinati nei depositi americani e sovietici sono già stati destinati a smantellamento con recupero di materiali fissili che verranno a costare circa la metà di quelli ottenuti dal minerale uranio.

 
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