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Dall'Irak all'Ucraina l'energia si militarizza Stampa E-mail
a cura di Drilling

Il pericolo sembra passato: i rubinetti del gasdotto proveniente dalla Russia e che attraversa l’Ucraina non saranno chiusi. La notizia tornerà nelle prime pagine dei giornali, quando dovesse delinearsi un nuovo pericolo di interruzione dei rifornimenti energetici per l’Europa, anche se l’eccezionale freddo russo qualche problema l’ha creato.
Purtroppo molto spesso i ragionamenti sugli avvenimenti energetici degli ultimi anni sono affrontati in modo parcellizzato, isolando l’analisi dei singoli specifici episodi, il che non consente di individuare il legame profondo che li unisce in un unico quadro interpretativo: la guerra in atto per il controllo dell’energia nei prossimi due decenni.
Abbiamo richiamato in passato su questa rivista i cambiamenti profondi avvenuti, in campo petrolifero, dalla crisi nucleare di Chernobyl ad oggi.
I dati essenziali sono almeno tre:

1. la drastica riduzione dell’autonomia energetica degli Usa;
2. l’aumento quasi fuori controllo della crescita della domanda energetica dell’Estremo Oriente;
3. la riqualificazione in chiave ambientale della domanda energetica.

Tutti e tre questi elementi stanno creando situazioni di tensione altissime nel mercato petrolifero ed energetico mondiale, in quanto non esiste alcun modo per trovare soluzioni nel breve-medio termine ai processi in corso e alle distorsioni che essi provocano sui mercati mondiali.

Per quasi due decenni non si è fatto assolutamente nulla, ignorando i dati che indicavano l’emergere di crisi formidabili e adottando la politica dello struzzo.
A partire dalla primavera del 1999, un’inarrestabile tendenza al rialzo del prezzo del petrolio ha costretto tutti, dopo i numerosi tentativi di negare l’evidenza, a rivedere le analisi.
Va dato atto all’amministrazione Bush di aver immediatamente realizzato la gravità della situazione, con la costituzione della commissione Cheney, che ha studiato il problema e indicato una serie di criticità e possibili soluzioni: ricerca di idrocarburi nelle riserve naturali del territorio americano (Alaska, Florida); espansione dell’attività di ricerca delle compagnie americane all’estero; investimenti nel settore della raffinazione americana; rallentamento del processo legislativo nel settore ambientale.
Sappiamo che gli interventi sul territorio americano non sono andati molto al di là delle intenzioni. È invece stato dato un grande sostegno alle compagnie americane per consentire la loro espansione all’estero, conquistando spazi in aree geografiche tradizionalmente sotto il controllo di Paesi europei.
Abbiamo così visto un intervento massiccio delle oil company americane in Angola, Nigeria, Congo, Guinea equatoriale, Ciad, Algeria, Libia. Insieme al tentativo di strappare la leadership alle compagnie europee in Kazakistan e negli altri Paesi del Caspio. Tutte queste iniziative “industriali” sono state accompagnate da vigorose attività “diplomatiche” della Casa Bianca. Quante crisi regionali sono avvenute all’ombra di questi cambiamenti?

Il salto di qualità nel perseguimento della strategia è stata la guerra in Irak. Se lasciamo da parte il dibattito sugli obiettivi “dichiarati” di questa guerra, possiamo individuare la continuità di una strategia messa in opera dall’amministrazione Bush: rimessa in discussione degli equilibri storici con le altre potenze mondiali, quando risultassero sfavorevoli agli Usa.
Il Golfo Persico, storicamente, vedeva le compagnie americane prevalere in Arabia Saudita ed Emirati arabi, quelle europee in Irak e Iran. La rottura di questo equilibrio, con il tentativo di estromettere dall’Irak le compagnie petrolifere europee, russe e cinesi (non è stata ancora riconosciuta la validità dei contratti di sfruttamento petrolifero firmati dai precedenti governi iracheni), ha aperto una nuova fase della gestione della crisi energetica mondiale, che potremmo definire di “militarizzazione dell’energia”.
Certo, dall’inizio della guerra irachena tutto è cambiato nel mondo degli idrocarburi e nella politica internazionale degli Stati interessati. Sarebbe fortemente riduttivo limitare il caso dei rifornimenti di gas all’Ucraina a un problema di prezzo giusto, magari da discutere a “Mi manda rai tre”. Così come sarebbe ingenuo pensare che le nuove strategie di Chavez in Venezuela, di Amadinejad in Iran avvengano per l’impazzimento di leader nazionali troppo estremisti e un po’ incoscienti.
Dopo quindici anni passati a cercare di limitare geograficamente, economicamente e politicamente l’arretramento rispetto al territorio dell’ex Urss, la Russia ritiene oggi di poter consolidare il proprio territorio geografico e politico e riaffermare nuovamente un ruolo di leadership: il controllo della più grande risorsa strategica nei due prossimi decenni, l’energia, le consente di tornare in primo piano sulla scena internazionale.
L’Europa ha ricevuto un messaggio chiaro. Mentre non ha alcun problema energetico e quindi di sviluppo economico in un contesto di stretto rapporto con la Russia, potrebbe trovarsi in serie difficoltà se dovesse supportare la strategia Bush di destabilizzazione delle repubbliche ex sovietiche, specialmente quelle che hanno un ruolo fondamentale nel garantire la logistica del trasporto e della raffinazione degli idrocarburi.

Di fronte a questo quadro, occorrerebbe una svolta strategica degli Usa in campo energetico, così come l’Europa fu obbligata a fare nel 1973: investire immediatamente e massicciamente nella tecnologia del risparmio energetico.
Se le immense risorse destinate alla guerra irachena fossero andate in questa direzione, oggi con tutta probabilità gli Usa sarebbero una nazione molto più forte e sicura del proprio futuro. Avere posto in naftalina l’accordo di Kyoto, rallentato la legislazione ambientalista, inseguito soluzioni gradite alle lobby petrolifere e militari non solo non ha condotto ad alcuna soluzione dei problemi, ma ne ha aggravato enormemente il peso sull’economia americana: importare petrolio e benzina ad oltre 60 $/barile è un problema grave che, nel contesto determinato dalla politica di Bush, potrà solo aggravarsi ancora di più.
È immaginabile un cambiamento della politica americana in questa direzione? Purtroppo, le lobby petrolifere sono parte organica dell’amministrazione Bush (i cui principali responsabili provengono dall’industria petrolifera) e l’attuale situazione sta garantendo alle compagnie petrolifere profitti che vanno al di là di ogni possibile immaginazione. A meno di una pesante sconfitta dei repubblicani nelle prossime elezioni di medio termine, non è pensabile un ripensamento autonomo dell’amministrazione. Lo si vede anche nelle analisi degli esperti americani sull’attuale crisi petrolifera, dove si leggono solo commenti strettamente congiunturali: scarsa produzione Opec, fattori climatici, alta domanda cinese e indiana…

L’Europa è molto più protetta in questa crisi, ma non ne è totalmente immune. L’Italia ancora di più, viste le sue scelte del passato di concentrarsi sull’uso degli idrocarburi.
Credo che oggi sia d’obbligo un rilancio in grande stile delle problematiche del risparmio energetico, finanziando la ricerca in questo settore, a tutti i livelli, e ogni forma di implementazione nei settori industriale e civile.
In questo quadro, una accelerazione verso una politica dei trasporti adeguata e il rinnovo del parco auto potrebbero servire sia a ridurre il consumo energetico sia a dare respiro alle industrie manifatturiere che siano portatrici di innovazione tecnologica.
Occorre anche recuperare il terreno perduto nelle tecnologie, che stanno divenendo d’avanguardia (anche se nate nella notte dei tempi nella Germania in guerra e nel Sud Africa sotto embargo), di gassificazione del carbone e liquefazione del gas. Attraverso queste tecnologie si perviene alla disponibilità di prodotti petroliferi finiti estremamente puliti, in linea con le nuove richieste ambientali.
Invece di sprecare una decina d’anni a dibattere sull’improbabile ripristino dell’energia nucleare in Italia, dovremmo concentrarci rapidamente su scelte più immediate, che potrebbero anche consentirci un recupero degli investimenti attraverso l’esportazione di prodotti puliti di cui il mondo, compresa l’America, ha assoluto e urgente bisogno.
 
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