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Connessioni Europa-Africa: non basta "tirare un cavo" Stampa E-mail

di Davide Canevari


Nei prossimi anni l’Europa e i Paesi dell’area MENA (Middle East e Nord Africa) dovranno affrontare sfide di carattere energetico tra loro profondamente diverse. Sfide differenti che, tuttavia, potrebbero essere vinte ricorrendo a strumenti uguali. Il Vecchio Continente dovrà, infatti, ridurre le emissioni di gas serra, limitare la propria dipendenza dalle fonti fossili di importazione, controllare l’escalation dei costi.
Le nazioni in rapido sviluppo del MENA dovranno, invece, supportare la crescente domanda di energia che le sta caratterizzando senza ricadere nelle stesse contraddizioni che pesano sull’Europa, senza acuire i conflitti già oggi in essere per l’accesso ai giacimenti di petrolio e gas naturale e – soprattutto – senza potersi “permettere” una insufficiente disponibilità di kWh. Per entrambi una parte della soluzione potrebbe essere lo sviluppo delle rinnovabili. E questo, ovviamente, non coglie nessuno di sorpresa. L’ipotesi che si va facendo strada – e che è assai meno scontata – è quella di promuovere uno sviluppo comune e coordinato di queste risorse. Di più: trasformare le zone meno distanti dall’Europa in giacimenti di energia – soprattutto solare, ma anche eolica – dai quali il Vecchio Continente possa attingere per saziare la propria fame di energia.
Lo scorso novembre, a Parigi, durante l’incontro Grid infrastructure and the Mediterranean Solar Plan che ha coinvolto oltre 50 grandi esperti del settore, è stato presentato uno studio (vedi Tabella) secondo il quale già nel 2030 l’Europa potrebbe “importare” energia solare pari al 5 per cento del proprio fabbisogno dall’Africa Mediterranea, riducendo al solo 6 per cento l’apporto del nucleare. Addirittura, nel 2050 il non rinnovabile sarebbe limitato a un marginale 18 per cento di oil&gas, con l’azzeramento dell’atomo e un buon 17 per cento di fabbisogno coperto dall’energia solare generata nei Paesi MENA. La dipendenza dell’Europa dalle importazioni sarebbe a quel punto contenuta entro il 35 per cento. Ma, soprattutto, in termini di import il ruolo delle fonti fossili e delle rinnovabili sarebbe praticamente paritario.
L’immenso potenziale solare dei Paesi MENA sarebbe per altro in grado di rispondere alle esigenze di export verso le nazioni sviluppate altamente energivore, senza creare tensioni interne in un contesto – come detto – di crescente domanda. Uno scenario ideale, idilliaco o – forse – solo un po’ troppo ideologico?
Alessandro Clerici (presidente onorario del WEC Italia e Direttore della Task Force Interconnessioni del WEC Internazionale) presente all’incontro di Parigi, commenta questi dati con una certa cautela. “Tali previsioni non possono che essere il risultato di uno studio molto sbilanciato a vantaggio delle rinnovabili. Ad esempio, è davvero poco credibile il presunto annullamento dell’apporto del nucleare. EdF e il governo francese hanno confermato l’intenzione di mantenere l’attuale livello di produzione – circa 450 TWh l’anno – almeno fino alla metà del secolo, anche attraverso la sostituzione di centrali obsolete con nuovi impianti. Basterebbe questo perché il nucleare possa garantirsi uno share del 12 per cento in termini di copertura del fabbisogno europeo alle soglie del 2050. Per non parlare dei programmi già definiti o in definizione da parte di Inghilterra, Finlandia, Svezia, Bulgaria, Romania, Repubblica Ceca, Slovacchia...”.

Torniamo, dunque, con i piedi per terra. Cosa c’è di concreto e di fattibile nei progetti di sfruttamento di energia da fonte rinnovabile generata in Paesi extracomunitari?
Chiaramente le previsioni pubblicate nella Tabella risentono di approcci ideologici non sostanziati da indispensabili serie analisi economiche e anche tecniche. Va detto che l’ipotesi discussa a Parigi non riguarda solo la tecnologia fotovoltaica, bensì – principalmente – l’uso di concentratori solari termici (CSP – Concentrated Solar Power, il solare cosiddetto termodinamico) che potrebbero produrre energia per circa 3.000 ore/anno anziché le 1.400 del fotovoltaico in aree assolate. In Spagna sono in fase di realizzazione numerosi di questi impianti per potenze di circa 50 MW ciascuno. L’aspetto più delicato è comunque quello della generazione, per costi (i progetti spagnoli costano circa 6.500 euro/kW) e rischi tecnologici. I costi della trasmissione equivarrebbero, in termini di investimento, a circa un decimo di quelli necessari per la generazione.

Parliamo proprio di questo aspetto tecnologico.
Di solito le persone preferiscono vivere in zone dove i fenomeni naturali (convertibili in energia elettrica) sono limitati. Tipicamente, le città sono costruite in aree senza eccessiva insolazione e protette da fenomeni ventosi di rilevanza; così come è certamente più facile trovare un insediamento nel cuore di una pianura con clima temperato che non alle pendici di una catena montuosa segnata da abbondanti precipitazioni o nel bel mezzo di una foresta tropicale. Quindi i siti ideali per la realizzazione di impianti di potenza solari, eolici, idroelettrici, sono nella maggior parte dei casi remoti rispetto ai centri di maggior consumo. Ciò significa che, in generale e a prescindere dalla questione Africa-Europa, non si può pensare a un serio programma di sviluppo della generazione da fonti rinnovabili (non “piccole” o distribuite come FV e fuel cells) senza promuovere, in parallelo, un potenziamento delle interconnessioni. La tradizionale tecnologia a corrente alternata non è sempre adatta al trasferimento di ingenti quantitativi di energia elettrica, specie sulle lunghe distanze o quando i collegamenti sottomarini superano all’incirca i 60 chilometri. Differente, però, è la risposta che l’HVDC (High Voltage Direct Current) è in grado di dare.

Ce ne illustra lo stato dell’arte?
Pur essendo ancora oggi in rapida evoluzione, la tecnologia HVDC ha già raggiunto un eccellente grado si sviluppo. Una singola linea aerea può trasmettere fino a 7.000 MW (ovvero circa un decimo dell’intera capacità di generazione oggi presente in Italia) su una distanza pari a 2 mila chilometri, la stessa che divide Parigi da Marrakesh in Marocco. E questo è quanto stanno realizzando in Cina con 3 linee a +/-800 kV per trasportare 20.000 MW da centrali idroelettriche situate a 2.000 chilometri da Shanghai. Come sopra accennato, la tecnologia a corrente alternata non è adatta ad attraversamenti sottomarini, se non per poche decine di chilometri; esistono invece già varie applicazioni di HVDC under sea di parecchie centinaia di chilometri, come il collegamento recentemente inaugurato NorNed (Norvegia–Olanda; 580 chilometri; 700 MW; +/-450 kV) o quello in costruzione Sapei (Sardegna-Italia peninsulare; 435 chilometri; 1.000 MW; +/-500 kV). I limiti attuali di potenza trasmissibili sono fondamentalmente dovuti ai cavi (tensione a +/-500 kV) che anche con le massime sezioni per cavi “convenzionali” portano a circa 1.200 MW il massimo della potenza trasmissibile per circuito. Lo sviluppo della nuova tecnologia VSC (Voltage Source Converters) per le stazioni di conversione permette il buon utilizzo di cavi XLPE (cross linked polyethylene) oggi a +/-320 kV per 1.200 MW, ma in un domani non remoto fino a circa 600 kV. Ciò permetterebbe il transito di potenze superiori ai 2.000 MW e questo non solo per i collegamenti sottomarini ma anche terrestri in aree dove risulta praticamente impossibile passare con le tanto esecrate linee aeree.

Quindi, da un punto di vista tecnico non ci sarebbero ostacoli di particolare rilevanza. Ma in termini di costi quale potrebbe essere l’impatto di un così ambizioso programma di sviluppo della rete?
Ad oggi i costi di trasmissione in Europa incidono per meno del 3-5 per cento sulla bolletta finale pagata dal cliente. Anche un drastico incremento di investimenti in queste infrastrutture non potrà quindi avere effetti significativi sul prezzo al consumo del kWh; al contrario, potrebbe invece favorirne una riduzione poiché un sistema di interconnessioni sempre più articolato ed efficiente potrà rendere accessibili in tempo reale gli impianti con i costi minori o con i minori livelli di emissioni. D’altra parte è importante fugare subito un equivoco. Per connettere in modo efficiente i due continenti non basta “tirare un cavo” di ultima generazione attraverso il Mediterraneo, che dalle sponde dell’Africa raggiunga la Spagna o l’Italia. Bisognerebbe anzitutto superare i colli di bottiglia delle reti locali nei punti di arrivo. La connessione, attualmente in fase di studio, tra la Tunisia e l’Italia considera, ad esempio, i 700–1.000 MW come la potenza massima sopportabile dalla rete di trasmissione siciliana, anche dopo aver effettuato alcuni interventi di ammodernamento e adeguamento. Anche per queste ragioni, occorre pensare a grandi autostrade di passaggio dell’energia su lunghe distanze con punti di spillamento intermedi distanziati e tali da poter assorbire le quantità di energia immessa senza colli di bottiglia a valle.

In conclusione?
Per gli esperti del settore il tema è certamente stimolante da un punto di vista teorico. Anche perché in molti Paesi dell’area MENA sono già allo studio nuove importanti realizzazioni infrastrutturali, indispensabili per soddisfare la domanda interna dei prossimi decenni. Poterle studiare assieme all’Europa, in un’ottica più ampia e ambiziosa, è un’opportunità a suo modo unica. È tuttavia ancora presto per capire se avrà un seguito concreto e a breve. Penso quindi che in questa fase debbano prevalere le azioni di natura politica, nella consapevolezza che la parte tecnica – all’occorrenza – è pronta a raccogliere la sfida. Occorrerà poi stabilire con chiarezza chi dovrà essere il soggetto proponente, a chi dovrà inoltrare la proposta, con quali tempi e modalità. Anche da questo punto di vista, soprattutto pensando ai problemi di carattere economico e finanziario che si potrebbero incontrare nei Paesi in via di sviluppo, sarebbe forse meglio concentrarsi prima di tutto su alcuni progetti di medie dimensioni e solo in un secondo tempo azzardare programmi elefantiaci. Nella tavola rotonda di Parigi si è parlato non a caso del Lego method, della necessità di costruire un mattoncino alla volta, ovvero di procedere Paese per Paese nella realizzazione di questa rete che nella sua interezza dovrebbe poi interessare oltre 30 Nazioni. E io mi sono permesso di sottolineare ripetutamente che le soluzioni devono essere studiate in modo che siano non solo carbon free ma anche affidabili e sostenibili economicamente.

 
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