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PAUSA-ENERGIA
 
Non passa lo straniero Stampa E-mail
di Giuseppe Gatti

Primi arrivarono gli americani e prima fra tutti l’Aes. Era l’anno di grazia 1993 e leggere nelle leggi 9 e 10 del 1991 e nel CIP 6 del 1992 l’avvio di un processo di apertura e di liberalizzazione del mercato, era un atto di fede quale solo gli americani sanno compiere. Nonostante il (spero sia risultato garbato) scetticismo con cui li ricevetti al ministero dell’Industria, impiantarono quella che si definisce “una stabile organizzazione” in Italia. Poi vennero Edison Mission Energy (accompagnata da Erg) e la mitica Mrs. Mark di Enron (insieme con Gian Marco Moratti). Infine la Westmoreland, che voleva realizzare una centrale a carbone a Cairo Montenotte. Questi i precursori del Gran Tour dell’energia.

Dal ‘95 al 2000 scesero tutti i migliori numeri dell’elettricità Usa: la Duke, la Entergy, i texani di El Paso, la Southern (poi ribattezzata Mirant), la Pseg, da Cincinnati arrivò la Cinergy, poi fu la volta di Txu, di Us Energy System, di Centerior, di Cipsco, di Dayton e cito solo le società con cui ho avuto maggiori rapporti. Alcune vennero, studiarono il mercato e ripartirono. Anno dopo anno tornarono, saggiando la situazione, cercando di capire le prospettive, senza impegnarsi mai oltre un generico scouting. Altre aprirono i loro uffici, chi a Milano, chi a Roma, arruolarono manager e consulenti italiani e incominciarono prima a seguire il confuso dibattito italiano poi a cercare possibilità di acquisizioni, poi ancora a individuare siti ed a sviluppare progetti.

Poche andarono in goal: la Edison Mission Energy, che con la Erg (che ha il controllo e la gestione dell’impianto) ha realizzato la centrale di Isab Energy a Priolo in Sicilia; la Enron che insieme con Saras (che parimenti controlla l’iniziativa) ha costruito la centrale della Sarlux a Sarroch in Sardegna: due impianti di oltre 500 MW, veri gioielli di avanzata tecnologia che producono energia elettrica dalla gassificazione del tar (il residuo pesante della raffinazione petrolifera). Ancora la Edison Mission è entrata nell’eolico in joint con l’italo-americana Ivpc. Aes ha risolto qualche problema a Enichem acquistando la vecchia centrale di Ottana, di cui vorrebbe ora liberarsi e la Pseg si è impegnata in alcune centrali a biomasse di Prisma 2000. Mirant ha sviluppato alcuni progetti, li ha venduti e se ne è andata. Degli altri operatori arrivati dagli Stati Uniti si è persa ogni traccia.

Anche le storie gloriose hanno però una conclusione amara: la Enron travolta dal suo crollo e la Edison Mission Energy che deve mettere in vendita tutti i suoi assets nel mondo e tra questi le partecipazioni italiane in Isab Energy e nell’eolico. Dopo gli americani attraversarono le Alpi gli operatori europei, per lo più in seguito al Decreto Bersani ed all’aprirsi del mercato italiano. Gli svizzeri, che da sempre intrattenevano rapporti con Enel aprirono le loro filiali di trading, i tedeschi di Bayernwerke e di Preussen Elektra (oggi fuse in E.On) esplorarono la possibilità di costruire nuove centrali, i loro cugini di Rwe, coerenti al loro modello cercarono (con renana placidità) alleanze con le municipalizzate, gli austriaci di Verbund si misero in joint con la Cir e fecero nascere Energia (il primo vero new comer sul mercato italiano).

La vendita delle tre Genco suscitò una successiva ondata d’interesse. Dai belgi di Electrabel (che alla fine entreranno in società con Acea) agli spagnoli di Endesa, Iberdrola e Union Fenosa, dai canadesi di HydroQuebec ai giapponesi di Tepco, non c’è stata utility che non abbia esaminato la possibilità di entrare in Italia con l’acquisizione di una Genco (magari in cordata con operatori italiani). Alla fine c’è riuscita in pieno solo Endesa che, favorita dal famoso scambio di figurine con Enel alla quale cedeva la spagnola Viesgo, riusciva ad acquisire Elettrogen, la migliore delle tre Genco in palio. Atel è entrata nella combinazione che si è aggiudicata Eurogen (oggi Edipower) ed Electrabel e Verbund hanno assunto, direttamente o indirettamente una quota in Interpower (oggi Tirreno Power). Dopo quello di Endesa il secondo colpo grosso è stato messo a segno da EdF, che giunta in soccorso di Fiat nella scalata a Montedison si trova ora ad essere la vera proprietaria di Italenergia e quindi di Edison. Chiuso il capitolo Genco nuovi operatori hanno cercato di entrare attraverso il trading, come la svedese Vattenfall o con la costruzione di nuove centrali, come gli inglesi di International Power.

Il 2002 è stato probabilmente l’anno di punta della presenza internazionale in Italia. Poi è iniziata la grande fuga.
Gli americani, primi ad arrivare sono stati anche i primi ad andarsene, seguiti a ruota dagli europei che non sono riusciti ad entrare nel gioco. Anche gli ultimi rimasti stanno facendo le valige: Rwe chiude i suoi uffici a Roma e Vattenfall quelli di Milano. Rimangono dunque Endesa, EdF, gli svizzeri di Atel, EGL, Eos, Raetia, la tedesca E.On, i belgi di Electrabel e gli inglesi di International Power. Mentre Eos è impegnata attraverso Alpenenergie soltanto sul fronte commerciale (ove per altro sono presenti, senza proprie strutture dirette gli altri due soggetti svizzeri, Bkw e Nok) tutti gli altri operatori stanno perseguendo il difficile sviluppo di nuove centrali e per alcuni di essi la permanenza sul mercato italiano è legata proprio al successo di queste iniziative. Perché il panorama si è così rarefatto? Le ragioni sono diverse, ma in primo luogo non si deve dimenticare che il mercato italiano ha dimensioni relativamente contenute, è inferiore alla California o allo Stato di New York e dunque non c’è oggettivamente spazio per troppi operatori.

In secondo luogo il nostro è un mercato in cui non funziona la tipica strategia americana di crescita per acquisizioni: assorbita la Sondel dalla Edison ed entrata questa nell’orbita EdF, tra le società elettriche tradizionali rimangono solo le ex-municipalizzate, ma queste non sono in vendita, la loro privatizzazione non si è mai realizzata (anche quella di Aem è del tutto fittizia con la blindatura del cda da parte del Comune di Milano) e non sono scalabili. Una crescita per linee interne appare lunga e tormentata, il cosiddetto sblocca-centrali è fallito ed i processi autorizzativi stentano a concludersi. Per gli operatori anglosassoni pesa poi la diversità dei modelli di business.

Mentre in America e nel Regno Unito la liberalizzazione ha visto fiorire gli IPP, i produttori indipendenti che “affittano” con contratti di tolling la loro capacità ad utilities e traders, nell’Europa continentale continua a prevalere la spinta all’integrazione verticale. Gli unbundling societari imposti dalle direttive europee hanno portato ad avere società separate per la vendita, la distribuzione e la produzione, ma questa separazione è poi superata dall’integrazione in Gruppi in cui la holding mantiene il controllo di tutta la filiera. Nessun operatore europeo si acconcia al ruolo di IPP anzi tutte le utilities vedono la generazione in funzione dello sviluppo dell’attività commerciale. In ultimo si aggiunga la difficoltà a definire contratti di tolling, nei quali il toller mette il combusibile, paga la capacità e ritira l’energia elettrica, quando il mercato del combustibile (che per le nuove centrali è il gas) rimane nelle mani fondamentalmente di Eni.

Le società americane hanno poi subito, chi più chi meno, i contraccolpi della vicenda californiana e del crash della Enron e stanno procedendo a una ritirata strategica oltre Atlantico per riorganizzare il proprio posizionamento finanziario, prima ancora che industriale. Vi è infine un connotato peculiare dell’Italia che scoraggia gli investimenti internazionali: la complessità unita all’instabilità del quadro normativo. Questo vale soprattutto per un settore fortemente regolamentato qual è quello elettrico. Quando l’Autorità per l’energia elettrica e il gas cambia quattro volte in due mesi (tra il 30 gennaio ed il 30 marzo) alcune regole basilari del gioco con delibere pressoché incomprensibili per gli italiani, come si può pensare che operatori stranieri siano invogliati a venire in Italia? Chi si è trovato a spiegare ad un inglese come funziona il sistema di assegnazione dell’import o dell’energia da CIP 6 ricorda lo sbigottimento che genera anche la più semplificata delle esposizioni. Con la normativa e la regolazione del settore abbiamo eretto barriere all’ingresso veramente formidabili e non c’è quindi da stupirsi se queste poi funzionano, con la conseguenza di rendere meno aperto e competitivo il mercato italiano.



 
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